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SOL LEWITT, O IL PARAGRAFO TERMINALE

di - 12 Aprile 2007

In tempi apocalittici come questi che stiamo vivendo, si sa, viene sempre a mancare la guida dei veri saggi. Proprio al momento meno opportuno. E così, una lunga e dolorosa malattia si è infine portata via un altro gigante del Ventesimo secolo, Sol LeWitt (Hartford, Connecticut, 9 settembre 1928 – New York, 8 aprile 2007).
La sua biografia e la sua carriera sono a dir poco stupefacenti, al punto da incutere quasi un timore reverenziale. A pochi artisti l’appellativo di maestro si attaglia così bene come a lui. Insieme a Donald Judd, Dan Flavin, Robert Morris e Richard Serra -ma ad un livello sicuramente più rigoroso, purista, e forse anche più primario– ha creato l’alfabeto artistico per la fine del Novecento e soprattutto per questo secolo, la piattaforma creativa su cui costruire le nuove “proposizioni”. Ma, come per i bambini, prima vengono le lettere, poi le parole, le frasi, i discorsi.
L’opera di Sol LeWitt, minimale senza essere pedante, si è imposta subito come ideale trait d’union tra il tardo Modernismo e il Postmoderno, tra gli esiti terminali della linea critica dell’astrazione di marca greenberghiana e gli esordi del “progress” di Rosalind Krauss, cioè il superamento definitivo della scultura intesa in senso tradizionale, a favore dell’ossessività e della compulsione, due temi fondanti dei successivi trent’anni: “in LeWitt lo straripamento, l’accumulo dei casi diversi e delle eventualità è attraversato da uno scrupolo di organizzazione, infarcito di sistema. C’è, come si suol dire, un metodo nella follia delle Variations on Incomplete Open Cubes. Ciò che vi scopriamo è il ‘sistema’ della compulsione, il rituale inflessibile dell’ossessivo con la sua precisione, la sua perfezione, il suo puntiglioso rigore, come un velo teso su un abisso di irrazionalità”. [1]
Tuttora ineguagliati -tranne che nel caso dello stesso Judd e, probabilmente, di Dan Graham– il livello (altissimo) e la densità della sua speculazione teorica. I suoi Paragraphs on Conceptual Art (1967), pubblicati nel numero estivo di Artforum, sono ormai entrati a pieno titolo nella leggenda della storia dell’arte contemporanea. Essi costituiscono indubbiamente il vero atto di nascita dell’idea come opera autentica, e dell’oggetto come suo riflesso fantasmatico: “I will refer to the kind of art in which I am involved as conceptual art. In conceptual art the idea or concept is the most important aspect of the work. (…) The idea becomes a machine that makes the art” [2].
Questi paragrafi, con il loro andamento apodittico e quasi ambient (del resto, i dischi anni Settanta di Brian Eno e Robert Fripp costituiscono l’ideale colonna sonora delle opere di LeWitt, e vengono fuori, non a caso, da riflessioni analoghe svolte nel campo della composizione musicale), traducono uno stato mentale realmente apollineo, una chiarezza di pensiero che a quest’altezza rappresenta la testa di ponte dell’avanguardia internazionale, appena prima della scomparsa di ogni avanguardia.
Ciò nonostante, non si avverte alcuna aggressività, nessun velleitarismo, nessuna ingenuità biecamente ‘rivoluzionaria’: i risultati più sconcertanti vengono presentati come fenomeni naturali, o piuttosto come equazioni matematiche, eleganti e precise. Dati di fatto, più che ipotesi di lavoro: “What the work of art looks like isn’t too important. It has a look like something if it has a physical form. No matter what form it may finally have it must begin with an idea. It is the process of conception and realization with which the artist is concerned”. [3]
Oggi, queste riflessioni sono parte integrante del paesaggio culturale che ci circonda, e hanno assunto persino un’aria un po’ vecchiotta, ammuffita. Sono state inghiottite da ondate successive di post-concettualismi, più o meno digeriti e digeribili, e di revival stucchevolmente nostalgici. Eppure, nell’anno in cui comparvero -per inciso, un’annata grandiosa, la stessa del Laureato di Mike Nichols, di Gangster Story (Bonnie & Clyde) di Arthur Penn e di un debut-album stratosferico come Are You Experienced? di Jimi Hendrix– erano l’equivalente artistico di un terremoto.
Meno famose, ma ancor più interessanti, sono le Sentences on Conceptual Art (1969). Più condensate rispetto ai pensieri precedenti, stroncano sul nascere -sviluppando lo stesso nucleo di idee del primo testo- l’idea che il concettualismo si identifichi con un’operazione fredda, asettica, razionale fino all’eccesso. [4] Aprendo, con larghissimo anticipo, all’euforia tranquilla dei Wall Drawings.
Inoltre, valgono ancora adesso come regole auree e universali, da tenere ben presenti perché rinfrancano lo spirito e ci indicano la rotta da seguire. Soprattutto in epoche oscure, confuse e spettrali come la nostra: “32. Banal ideas cannot be rescued by beautiful execution. 33. It is difficult to bungle a good idea. 34. When an artist learns his crafts too well he makes slick art. 35. These sentences comment on art, but are not art”. [5] “Queste sentenze commentano l’arte, ma non sono arte”.

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christian caliandro

note
[1] R. Krauss, LeWitt in progress (1977), in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Fazi Editore, Roma 2007, pp. 263-264. Cfr. anche ivi, p. 267: “Una razionalità falsa e pia era uniformemente considerata dalla generazione di LeWitt nemica dell’arte. Judd parlava della sua concezione dell’ordine come quella di ‘una cosa dopo l’altra’. Morris e Smithson parlavano di gioia di distruggere. Per questa generazione il modo d’espressione tipico diventò l’ironia a freddo, lo sguardo fisso, il discorso ripetitivo e senza inflessioni. O meglio, essa inventò gli oggetti corrispondenti a tutto questo nel mondo della scultura. Fu un decennio straordinario.”

[2] S. LeWitt, Paragraphs on Conceptual Art, “Artforum”, New York, vol. 5, no. 10, Summer 1967, pp. 79-83; pubbl. anche in: C. Harrison, P. Wood, Art in Theory 1900-2000, Blackwell Publishing, Oxford 2003, p. 846.

[3] Ivi, p. 847.

[4] Cfr. supra, nota 1

[5] S. LeWitt, Sentences on Conceptual Art, “Art-Language”, Coventry, vol. 1, no. 1, May 1969; pubbl. anche in: C. Harrison, P. Wood, op. cit., p. 851.

[exibart]

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