La dittatura dell’evento

di - 9 Gennaio 2015
Facciamo un passo indietro: il sogno di una Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale) si concretizza, nella sua dimensione moderna, sul crinale dell’Ottocento, quella linea di demarcazione non temporale ma culturale che segna la frattura tra la modernità e le avanguardie ancora a venire e che, non a caso, porteranno inscritto nel loro futuro codice genetico proprio il segno (sogno?) dell’opera d’arte totale. In principio fu Richard Wagner con i suoi happening a Bayreuth, allestimenti scenici che assomigliavano più a una potente esperienza cinematografica che a un’opera sinfonica. Eventi ante litteram, a cui non mancava neppure il corollario di mondanità e potere e che anzi furono il quid necessario alla libera espressione di quell’utopia che, per un periodo, alimentò l’onanismo artistico del minuscolo Führer.
Dalla fine dell’Ottocento ad oggi ci separa tutta l’esperienza delle Avanguardie storiche, delle neo-avanguardie e del magma esperienziale che accadde – e accade – dopo. Se la fluidità è diventata il concetto chiave per interpretare un contemporaneo caratterizzato da una rivoluzione tecnologica letteralmente epocale, un’epoca immersiva dove la fame di stimoli segna l’esperienza quotidiana di una buona parte di mondo, l’arte sembra adeguarsi con facilità a questo nuovo statuto, dando vita a complessi espositivi e alimentando scelte curatoriali sempre più spesso indirizzate a una proposta multidisciplinare, multisensoriale, coinvolgente e anti – contemplativa.

L’arte contemporanea sembra possedere alcuni tratti in comune con la pornografia e con il Barocco, due potenti categorie estetiche. La cifra è l’assenza di misura: lo slancio verso una forma (sempre più difficile da evocare) di meraviglia, la costruzione di una macchina scenica necessaria al dispiegarsi dello spettacolo, la volontà di stimolare sensorialmente ed emozionalmente il pubblico, sempre sull’orlo della distrazione incipiente. L’ipertrofia espressiva rende desiderabile, se non necessario, il ricorso a tutte le forme possibili: un solo centro di attenzione, un solo linguaggio o un campo d’interesse non bastano per soddisfare la bulimia di stimoli del pubblico.
Ciò non si traduce automaticamente in una brutta esposizione, in una mostra “sprecata”, anzi spesso il risultato della caduta delle barriere tra le discipline genera risultati di innegabile valore. Si pensi al Victoria & Albert Museum, con la splendida retrospettiva dedicata a David Bowie, che ha fuso arti applicate, show business, performance. Si pensi alla mostra monstrum di Germano Celant dedicata al cibo Art & Food, presentata alla Triennale di Milano in vista di Expo2015, dal budget milionario o ancora, l’Hangar Bicocca di Milano, uno dei migliori poli espositivi in Italia e che fa della fluidità uno dei punti nodali della propria ricerca, dimostrando però una coerenza e una chiarezza di visione rare nel panorama italiano. Per dare un’idea dell’eclettismo dello spazio, pensiamo ad Alva Noto con un dj set che non avrebbe sfigurato a Ibiza o a Berlino, gli oggetti filmici di João Maria Gusmão & Pedro Paiva accanto alle giocolerie surrealiste di Cildo Meireles, le installazioni tra scienza e poesia di Tomás Saraceno, le visioni di Apichatpong Weerasethakul, Christian Boltanski, Alfredo Jaar e così via, fino al progetto che vede ancora protagonista per qualche giorno la madrina della performance newyorkese Joan Jonas. Oppure, spostandoci a Roma, Open Museum Open City al MAXXI, sotto la guida di Hou Hanru, che ha svuotato gli spazi del museo per lasciarli abitare dai suoni, e Art of Sound alla Fondazione Prada Ca’ Corner, nella quale sempre Celant aveva raccolto manufatti musicali dal XIV secolo ad oggi, indagando il rapporto tra arti e musica, tema che ultimamente sembra essere in grande spolvero.
Sull’onda di un rinnovato interesse verso la performance, la smaterializzazione dell’oggetto artistico trova una sua cornice naturale. La presenza pervasiva di media time-based rafforza l’interesse verso forme di arte prima relegate alla marginalità, come la videoarte e le opere sonore. Dopo l’innamoramento per la pittura degli anni ’80 – fenomeno che in Italia ha avuto una coda lunga anche nel decennio dei ’90 e che ha visto tentativi più o meno riusciti di rapida storicizzazione – sembra definitivamente giunto il momento della supremazia dell’evento. Una forma di concettualismo di ritorno, che possiamo distinguere in una corrente prettamente sociale, antropologica (Lucy+Jorge Orta, Regina José Galindo) in qualche misura perfino ideologica, si contrappone a una ricerca formale di “pop tragico” (penso a Vezzoli, ad esempio con il suo 24 Hours Museum messo in scena a Parigi), alle evocazioni mass-mistiche (Abramovich), che riporta in primo piano la centralità dell’artista, in tutto il suo egotismo. Un artista che ha prima abdicato al suo ruolo primario, lasciando il campo all’azione del curatore, vero protagonista delle mostre più significative degli ultimi decenni (il binomio Kassel-Venezia) per poi ricontrattare la propria presenza e sgomitare per conquistare di nuovo la scena del palco.
Corsi e ricorsi, dove il grande assente continua ad essere l’oggetto d’arte, mai veramente riapparso dopo la stagione dell’avanguardia concettuale.

Che questo “movimento” – prendiamo in prestito un termine della grammatica musicale –  sia costruttivo o distruttivo, è difficile da stabilirsi e forse secondario rispetto alla domande che ci suggerisce. Operazioni come quella del MAXXI sono senza dubbio stimolanti e hanno il merito di rimettere in discussione l’identità istituzionalizzata del museo, di rivelare il potere ammaliante dell’evento e di ridiscutere, ancora una volta, il ruolo dello spettatore. Eppure, non si può non sentire il chiasso che produce l’assenza del manufatto artistico, la sua perdurante mancanza dalla scena. Se per un attimo pensassimo di rimetterlo al centro delle pratiche odierne, che effetto ci farebbe? Siamo sicuri di poter reggere la fissità, la densità di delle Teste di Brancusi, di un’opera di Morandi o di una combustione di Burri? Certo, si tratta di altre epoche, quasi di un’altra umanità, e ormai è quasi impossibile recuperare l’aura di queste opere che hanno al massimo la capacità di apparirci come meravigliosi oggetti ornamentali, vicini a noi come un vaso Ming o un bronzo di Riace.

Ripercorrendo con la memoria le sale che hanno ospitato la retrospettiva di Lugano dedicata proprio a Morandi, solo due anni fa, mi chiedo se quelle ombre della consistenza del piombo, quelle luci lattiginose e quell’aria che scorre, tra la caligine, le minuzie della polvere, il niente dei giorni e della frutta quotidiana poggiata su un paniere, possano essere sostenuti dal nostro sguardo odierno. Possiamo stare di fronte a un’opera sola e lasciarla accadere, compiersi, irraggiarsi anche nelle relazioni che instaura con le cose e lo spettatore, o siamo condannati a subire la dittatura dell’evento? Se potessimo per un attimo fare silenzio, senza rischiare di apparire nostalgici, se potessimo togliere apparati critici, semiotici, mediatici che fanno da stampella all’arte contemporanea, ci troveremo di fronte a una nudità abbacinante, muta, di cui abbiamo probabilmente smarrito il senso. Una lingua che forse non torneremo più a pronunciare, mentre una nuova possibilità di rappresentazione cerca di affermarsi cancellando definitivamente il primato dell’opera in favore dell’happening. Neanche nei sogni più sfrenatamente utopici, le avanguardie avrebbero creduto di giungere a tanto.
Silvia Bottani

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