Concretamente come è organizzata la mostra?
La pluralità dei sensi del “sacro” che la mostra mette in luce trova quindi il suo fondamento nella pluralità dei percorsi intrapresi dagli artisti?
Sì, proprio così. È molto importante sottolineare che il tema dell’esposizione non è la religione ma le “tracce del sacro”. Ovvero, si tratta di pensare i modi in cui l’arte lascia un segno, una traccia materiale di una dimensione “sacra”, senza per questo voler rinchiudere tali esperienze all’interno delle definizione tradizionale di “arte sacra”. Il “sacro” non è preso in un senso definito e statico, perché in realtà si radica sulla ricerca personale degli artisti e s’incarna nella materialità delle loro espressioni artistiche, dunque in modo necessariamente diversificato.
In questo senso, la mostra sottolinea come, a dispetto della secolarizzazione, l’arte si sia costituita come uno spazio di riformulazione della dimensione spirituale. È questa un’idea che volete estendere all’arte moderna in generale o avete intenzionalmente tralasciato quelle forme espressive che si sono invece lasciate completamente alle spalle la dimensione trascendente?
È un’ottima domanda. In realtà, la mostra esprime una presa di posizione, al fine di mettere in luce, per la prima volta in Francia, la dimensione spirituale dell’arte del XX secolo. Il tentativo è di evidenziare un nuovo vettore possibile per leggere la storia dell’arte moderna e contemporanea. Si tratta di una proposta che, pur compatibile con altre (come il materialismo o la scienza), intende valorizzare qualcosa che, spesso, si è cercato di accantonare, soprattutto in Francia. Su questo tema ci sono state altre mostre importanti, una negli Stati Uniti negli anni ‘80 (Los Angeles, 1986), una in Germania (Franconforte, 1995), ma in Francia tale dimensione è stata occultata, anche rispetto a degli artisti come Kandinsky e Mondrian, nei quali aveva una dimensione preponderante, favorendo una lettura formalista, che accentua il lavoro sulla forma espressiva a partire dall’impressionismo fino al monocromo degli anni ‘50.
Si può parlare quindi di un’intenzione per certi versi “politica”, che ha spinto alla realizzazione di questa mostra?
Sì, se vogliamo, ma in senso lato. La nostra intenzione è quella di arricchire la comprensione della storia dell’arte, soprattutto per ciò che riguarda le istituzioni artistiche e i musei, perché in realtà il rapporto fra arte e spiritualità è ben noto negli ambienti di ricerca scientifica e nelle università. Questa operazione, infatti, si situa proprio a livello delle mostre. D’altro canto, la situazione attuale sta già cambiando, ad esempio è stato annunciato un progetto a Strasburgo sulla “faccia nascosta” della creazione. C’è quindi un’attenzione montante per quest’aspetto, che noi consideriamo fondamentale per l’arte del XX secolo.
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La recensione della mostra
a cura di stefano mazzoni
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[exibart]
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