La manifestazione bolognese, organizzata da Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia e dedicata alla riscoperta del cinema privato, amatoriale e sperimentale, presenta dal 2008 una selezione di progetti di riuso di materiale preesistente, proveniente da cineteche, musei e archivi pubblici e privati. Non solo. Il festival Archivio Aperto, lungo tutto il suo svolgimento, ospita una serie di incontri, installazioni, film fuori concorso e proiezioni in 16mm che approfondiscono ed espandono la sezione principale. L’edizione di quest’anno, The Art of Memory, svoltasi dal 24 al 27 ottobre, si è concentrata sul concetto di memoria, con un riferimento a uno dei più conosciuti romanzi di Goliarda Sapienza a cui è stato riservato un momento di approfondimento tematico.
Le danze si sono aperte con la presentazione in sala, al cinema Modernissimo, dei primi quattro corti di Chantal Akerman, recentemente riscoperti e restaurati dalla Cineteca del Belgio, e con l’anteprima italiana di Sulla terra leggeri di Sara Fgaier, dopo il passaggio estivo a Locarno. Il programma è stato poi arricchito da omaggi a Stan Brakhage e Carolee Schneemann, proiettati in pellicola nel suggestivo scenario della ex Chiesa di San Mattia, oltre che dalla proposta del meraviglioso La Nott’e’l’ giorno di Gianni Castagnoli, tardo capolavoro del Cinema Indipendente Italiano. In aggiunta, era visionabile, in forma di video-installazione, l’opera di Adelaide Cioni, Kew. A Conversation in Green, che riportava la struttura delle piante nella Palm House dell’orto botanico di Londra a una forma quasi astratta.
Ma volendo addentrarci nelle cinque dense giornate di Archivio Aperto, è bene occuparsi del concorso, i cui premi sono stati assegnati da Teresa Castro, Massimo D’Anolfi e Garbiñe Ortega. La scelta, ricaduta su film molto diversi per stile e durata, la cui unica costante, tolte poche eccezioni, era forse la presenza del voice over, presentava sedici pellicole in totale, fra cui otto lungometraggi, due mediometraggi e sei corti, molti dei quali in anteprima italiana. Fra i più interessanti, si trovavano, per esempio, racconti biografici attivati dalla scoperta di archivi privati composti da home movies, fotografie e documenti di vario genere: è il caso di Triton di Ana Lungu e Fragments of Ice di Maria Stoianova.
Il primo ricostruisce alcuni passaggi della vita dell’eccentrico compositore rumeno Alexandru Popovichi, raccontando la sua passione per le donne e per i dispositivi di ripresa, fotografica e cinematografica, e i suoi apparenti contatti con i servizi segreti. Il secondo segue, invece, i viaggi di un pattinatore su ghiaccio ucraino, padre della regista, che negli anni Ottanta e Novanta – poco prima e poco dopo il crollo dell’URSS – documentava con la sua videocamera ogni aspetto della vita in Occidente che reputava interessante. Il parallelo con il girato domestico che ritrae la figlia piccola, spesso lontana, apre il film a una dialettica che contrappone luoghi e modi di vivere – spostandosi continuamente fra la casa di Kiev e le attrazioni delle città nordamericane ed europee. L’ingresso strisciante del consumismo nei paesi sovietici scandisce la narrazione, sottolineando l’agire del tempo nelle immagini: incursione nella Storia che giunge al suo culmine con il riferimento agli eventi odierni e attualissimi dell’invasione dell’Ucraina.
Il confronto con il passato nazionale è protagonista anche di A Portas Fechadas di João Pedro Bim, incentrato sulla dittatura militare instaurata in Brasile e lunga circa un ventennio, fra il 1964 e il 1985. In particolare, grazie anche al lavoro della montatrice Bruna Carvalho Almeida, intervenuta in sala, l’opera si propone di ribaltare la propaganda di pubblicità, cinegiornali e documentari nazionalisti, filogovernativi, che tentavano di nascondere il carattere autoritario del potere in quegli anni. Con autentico spirito civile, riserva un ruolo centrale alla poco ricordata registrazione della riunione del dicembre 1968 con cui, di fatto, il presidente e i ministri ratificavano l’istituzione della dittatura – la cui esistenza è ancora messa in dubbio dalla destra bolsonarista.
Per la sentita disposizione politica, fra la denuncia e la sofisticata operazione stilistica, è impossibile non segnalare anche Silence of Reason di Kumjana Novakova e A Fidai Film di Kamal Aljafari, analisi dure e radicali delle ingiustizie di ieri, in Bosnia-Erzegovina, e di oggi, in Palestina – premiate dalle giurie. In entrambi i film, il discorso sulla cancellazione – da una parte della prospettiva della violenza di genere, dall’altra dell’identità di un popolo – nella dolorosa esperienza del conflitto, prende corpo nella forma di un’estetica grezza che fa della bassa risoluzione e dell’intervento tattile sulle immagini il suo principale canale di comunicazione.
L’accostamento nella programmazione suggeriva, inoltre, affinità e rispecchiamenti fra Le voyage de documentation de Madame Anita Conti di Louise Hémon e Terra Nova – Il paese delle ombre lunghe di Lorenzo Pallotta: due film ambientati in mare, l’uno sulle tracce dell’equipaggio di un peschereccio francese accompagnato dall’oceanografa Anita Conti – la cui parole sono sovrapposte alle splendide riprese in 16mm risalenti agli anni Cinquanta, custodite dalla Cinémathèque de Bretagne – l’altro al seguito di due viaggi di esplorazione in Antartide su una nave italiana, prima nel 1988 e poi nel 2023. Il regista stesso ha raccontato il fortuito ritrovamento del girato contenuto da videocassette ancora conservate a bordo. Se il primo film unisce la crudezza della pesca commerciale a un immaginario da romanzo d’avventura, il secondo dà vita a un gioco che fonde uniformemente superfici e colori in un flusso ipnotico concluso da un’inaspettata inversione in negativo delle immagini catturate da un marinaio con una Go-pro.
La componente videosaggistica, spesso propria dei film realizzati su materiali di repertorio, si ritrovava sia in 24 Cinematic points of View of a Factory Gate in China di Ho Rui An che in The Hidden Gesture. War and Melodrama in Hollywoood’s 30s and 40s di Dana Najilis, interessati a tracciare percorsi e prospettive alternativi nel campo della Storia del cinema. Allo stesso modo, Alpe-Adria Underground! di Jurij Meden e Matevž Jerman, registi ma anche curatori e conservatori di cineteca, uno a Vienna, l’altro a Lubiana, ripercorre le tappe – dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri – della scena vivacissima del cinema sperimentale sloveno, da sempre sottostimata o del tutto messa a tacere nelle storiografie.
Infine, meritano la citazione almeno altre due opere. Per prima, Les mots qu’elles eurent un jour di Raphaël Pillosio – vera e propria indagine, portata avanti sotto forma di documentario, che tenta di venire a capo della scomparsa della colonna audio di un’intervista realizzata in Francia nel 1962 ad alcune militanti algerine. Per seconda, Grandmamauntsistercat di Zuza Banasinska che crea un montaggio di libere associazioni con lo splendido repertorio dell’Educational Film Studio di Łódź, in Polonia, riflettendo sulle ripercussioni dei costrutti sociali tradizionali sui corpi femminili.
Si tratta, dunque, di cinema di confine, sospeso fra passato e presente – tra l’archivio e la sala – capace di intessere un dialogo che supera i bordi dello schermo e interroga la natura delle immagini e lo statuto di spettatore di chi osserva: un’occasione unica per rinnovare lo sguardo, in attesa della prossima edizione.
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