Beirut Caput Mundi

di - 16 Novembre 2017
Aggirarsi tra le sale e gli spazi della mostra “Home Beirut. Sounding the neighbors”, il nuovo progetto del MAXXI curato da Hou Hanru e Giulia Ferracci, permette di sentire perfettamente la traslazione da città a casa e viceversa. Oltre che una mostra di opere è anche un percorso di ambienti che si aprono alternativamente alla luce o al buio, come nel trascorrere di una giornata metropolitana, incrociando le storie di migranti (Beirut ospita quasi due milioni di persone fuggite dal loro Paese natale, una popolazione non ufficiale in egual numero a quella censita) e quelle del proprio fiume, dei vari conflitti che hanno sempre accompagnato questa metropoli “Porta d’Oriente” al confine Siriano, mostrando la sua storia privata e anche una geografia nuova, data dall’espansione urbanistica, reazione postuma a guerre che spesso sono durate anni e che ne hanno segnato la storia.
Benvenuti insomma, in via Guido Reni, in un nuovo capitolo della serie “Interactions across the Mediterranean” dedicata al rapporto tra Europa e Medio Oriente, dopo gli approfondimenti su Tehran e Istanbul.
36 artisti, 100 opere, e la volontà del Museo delle Arti del 21esimo secolo di Roma di porsi «come antenna ricettiva e istituzione in grado di restituire una visione del presente», ha ricordato la Presidente Giovanna Melandri durante l’annunale Gala Dinner, la serata di fundraising per la racconta di fondi privati che permettono parte delle attività del MAXXI, come ad esempio l’apertura gratuita della collezione permanente dal martedì al venerdì.

Mona Hatoum, Measures of Distance, 1988 Video,
color, sound Courtesy the Artist

Ma torniamo a Beirut: città di memoria e di riscrittura urbana, città “gioiosa” per aver fatto della resilienza e della resistenza un’arte che ha pagato in termini di una ricchissima produzione che comprende non solo le arti visive ma anche cinema, poesia, teatro, musica e danza. E anche Beirut come, forse, una città per tutti, proprio per la questione migranti.
Un luogo che nulla mostra delle chiusure europee, che è stato in grado di accogliere senza  essere “programmato” per farlo, e che ha vissuto intensamente ogni momento del proprio presente.
La storia della Capitale libanese con i suoi cittadini è una storia d’amore e ritorni; è la celebre vicenda che da sempre si accompagna alla poetica di Mona Hatoum che – nata qui nel 1952 – vive a Londra dal 1975, ovvero dal momento dello scoppio della Guerra Civile. Una piccola presenza in mostra, per riproporre uno dei suoi video più celebri: Measures of Distance (1988) che riprende la madre dell’’artista sotto la doccia, mentre sul suo corpo appaiono in trasparenza alcuni testi in lingua araba e in sottofondo si percepisce una chiacchierata: è un rapporto famigliare a migliaia di chilometri, è la possibilità di sentire l’aderenza e l’estraneità a due luoghi contemporaneamente, quello dove si è scelto di vivere e quello dal quale si ha avuto origine.
Una condizione politica che non solo è stata trasformazione di “corpi” ma anche del corpo stesso della città, come abbiamo già scritto: potete lasciarvi incantare dalle storie di Joana Hadjithomas & Khalil Joreige, che in After the river raccontano proprio – con l’intervento dei cittadini – delle vicende del fiume di Beirut, per la maggior parte dell’anno un rivolo dormiente in un letto di cemento che, anche molto recentemente, è stato usato come discarica e che ha visto, nelle zone circostanti, la città subire importanti processi di gentrificazione.

Joana Hadjithomas & Khalil Joreige Remembering the
Light , 2016 HD video, 2 screens – Edition: 6 + 2 AP Courtesy the Artists and Gallery In Situ Fabienne Le Clerc, Paris

Nell’intervento di Joreige c’è chi parla di come i grattacieli siano usciti fuori quasi dal nulla o del fatto che probabilmente nessuno abbia mai fatto il bagno in questo “canale” e di come ora, dopo l’arrivo dell’arte nell’area di Jisr El Wati stia arrivando l’ultima ondata di grattacieli.
“Il futuro del fiume è ignoto, così come lo è la coesistenza di tutte le comunità che vivono nella zona”, si legge nell’introduzione.
Della coppia è da vedere anche il video Distracted Bullets, realizzato nel 2003-2005. Anche in questo caso la complessità, specialmente sociale, è di casa. Nelle immagini in movimento in cinque momenti di cinque differenti “festività” di Beirut si scopre come le armi da fuoco escano allo scoperto in alcune aree della città piuttosto che in altre per prendere parte all’allegria e al rumore di festa, mischiandosi ai più innocui e rumorosi fuochi d’artificio. Peccato che, per colpa di questa “consegna” alla popolazione degli strumenti della guerriglia, oltre vent’anni fa, siano tutt’oggi innumerevoli (e senza volto, e senza nome, e motivazione) i decessi per “proiettili vaganti”.
Romantico il lavoro di Marwa Arsanios, a proposito di resilienza. Un progetto dai multipli strati di lettura, che sarebbe troppo semplicemente risolvere nel tema della biologia: l’artista disegna su semplici fogli e con tratto da copia dal vero una ventina di specie tra flora e fauna che, a dispetto della pericolosità del luogo, vivono e crescono – per quanto riguarda i vegetali – proprio nelle discariche.
Una riflessione sulla tragica situazione che, nel 2016, aveva visto chiudere il sito di stoccaggio dei rifiuti più grande e antico di Beirut, nel progetto di spedire gli scarti del Libano in Russia, con l’ausilio di una compagnia inglese. L’area venne poi riaperta per problemi legati a false certificazioni ma, in poco tempo, questa condizione aveva messo la città a ferro e fuoco e a rischio epidemie, invasa di immondizia. Un altro “piccolo dramma” rispetto ai conflitti e ai confini, ma che a sua volta ha messo alla prova la città in tempi recenti.
Sirine Fattouh, Entre les Ruines, 2014 Video, color, sound Courtesy the Artist
Splendida e “sottile”, anche in senso fisico, l’opera di Caline Aoun Shipping Container Floor: si tratta di un calco, realizzato a carta carbone, del fondo di un vano cargo per le spedizioni internazionali. Una visione del commercio a metà strada tra materiale e immateriale: appeso al muro un monocromo blu, leggerissimo, incantevole e minimale, estraniato da un contesto complesso ma che, rivelandosi, riesce ad evocare un intero mondo di scambi e problematiche. A chiudere la mostra il commovente video di Sirine Fattouh, Entre les Ruines del 2014. Il danzatore e coreografo Alexandre Pauliketvitch, come in un paesaggio lunare, si aggira tra i resti di una cittadina distrutta nel sud del Paese: c’è la rovina della storia, l’uccisione delle libertà individuali, della differenza. E l’unica cosa che Alexandre può fare, di fronte allo scempio, è danzare, “L’unico modo per dimostrare l’impossibilità di rappresentare un tale disastro, una tale violenza”.
Ma dopo le lacrime, probabilmente, l’arte è l’unica “cosa” da fare a qualsiasi latitudine. E da Beirut l’insegnamento arriva forte e chiaro. In una mostra precisa, che porta con sè i dettagli di un archivio metropolitano. Senza uffici, e più bellezza.
Matteo Bergamini

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