Carta Bianca a Capodimonte

di - 30 Gennaio 2018
Immaginate una neurologa, un professore di Visual and Environmental Studies alla Harvard University, un industriale e collezionista, uno storico dell’Académie française, un direttore d’orchestra, un professore di Antropologia della Université de Montréal, un architetto paesaggista, un critico d’arte e due artisti. Adesso, ambientate questa storia in un museo eccezionale, le cui preziosissime collezioni sono allestite in uno sfarzoso palazzo reale circondato da un bosco. No, non si tratta di un adattamento dei famosissimi Dieci Piccoli Indiani ma di “Carta Bianca. Capodimonte Imaginaire”, progetto nato da un’idea di Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, e Andrea Viliani, direttore del Madre, che hanno invitato Laura Bossi Régnier, Giuliana Bruno, Gianfranco D’Amato, Marc Fumaroli, Riccardo Muti, Mariella Pandolfi, Paolo Pejrone, Vittorio Sgarbi, Giulio Paolini e Francesco Vezzoli, a immaginare il loro museo ideale, con la possibilità di poterlo realizzare.
«Abbiamo scelto dieci voci, dieci grandi personaggi del panorama culturale ma con esperienze diverse, per dare il via a questa piccola rivoluzione in cui la storia dell’arte unisce diversi linguaggi, dalla musica alla matematica», ha spiegato Bellanger. Ognuno degli invitati, infatti, ha preso sotto la propria responsabilità una sala del Museo di Capodimonte, da allestire con le opere della collezione, assecondando il proprio gusto, lasciando completa libertà di azione. «In questo modo sono state movimentate non solo le opere ma anche le idee, contribuendo a delineare l’immagine di un museo attivo, al servizio del pubblico», ha continuato Viliani, che ha anche sottolineato lo spirito di cooperazione, finalmente messo alla prova del campo, tra il Madre, Capodimonte e Pompei (ricordiamo che al museo d’arte contemporanea è attualmente visitabile una mostra in collaborazione con il sito archeologico, di cui scrivevamo qui).
Sala Paolini, Carta Bianca, Museo di Capodimonte, foto di Francesco Squeglia
Del famoso romanzo di Agatha Christie, a parte il numero dei protagonisti intervenuti, l’operazione potrebbe richiamare anche un certo spirito enigmistico, anche se «tutti hanno preso l’impegno molto sul serio», ha specificato Bellanger. Più che ludico è un atteggiamento logico, un rompicapo su scala ambientale. Tutto d’un fiato, dalla prima all’ultima sala, come un gioco di scatole cinesi, un itinerario denso di concetti espositivi, in cui opere di diversa caratura, da Guido Reni a Masaccio, fino ai paesaggisti del ‘700, passando per teste ellenistiche e porcellane, esprimono diversi display referenziali più che museali, perché è la regola stessa a volere così. I lavori evocano diverse personalità e convinzioni a seconda del modo in cui entrano nello spazio, le luci e le teche non sono disposte secondo criteri scientifici o storiografici, almeno non solo, e il fruitore può lasciarsi andare alla suggestione, riscoprendo la dimensione sinceramente emozionale dell’arte. L’allestimento potrebbe soffrire questa estrema eterogeneità ma, grazie al lavoro di Lucio Turchetta, riesce a trovare la misura adatta tra pieni e vuoti e il percorso fluisce con una piacevole naturalezza.

Sala D’Amato, Carta Bianca, Museo di Capodimonte, foto di Francesco Squeglia

Lasciando alle spalle i colori scuri delle prime sale di Sgarbi, nelle quali spicca un dialogo sfacciato tra l’Atalanta e Ippomene di Reni e il Sileno Ebbro di Jusepe De Ribera, non si può evitare un sussulto quando, entrando nella sala di Pejrone, il punctum è guidato verso lo spiraglio luminoso di una finestra inquadrata da una cornice dorata e lasciata aperta verso l’esterno, sul fresco e rigoglioso parco della Reggia. L’architetto ha scelto opere di artisti come, tra gli altri, Claude Lorraine e Lanfranco, dipinti nei quali emerge il tema boschivo. D’Amato ha optato per una sorta di wunderkammer, uno spazio ampio e molto carico, in cui compaiono opere della collezione contemporanea, di Carlo Alfano, Marisa Albanese e Louise Bourgeois, insieme ad altre di Ribera e Artemisia Gentileschi. Paolini presenta una situazione di gioco, un divertissement intellettuale, con le figure su plexiglas di Contemplator Enim, opera del 1992, che fanno da cornice straniante a un tavolo da gioco del 1802.  Intorno a un nucleo di stupore gravita la sala di Pandolfi, nella quale l’antropologa ha ragionato sul tempo indefinito dell’evento secondo la definizione di Gilles Deleuze, accogliendo il pubblico con un vortice di don chisciottesca suggestione, composto da un tripudio di armi e armature di fattura francese del XVI e XVII Secolo. Dalla sensazione opposta, verso la contrazione dello spazio, la sala di Muti, in una penombra coesa, dalla quale la piccola Crocifissione di Masaccio del 1426 risalta ancor più preziosa, disposta in una posizione elevata, come certe icone ortodosse oppure per richiamare la sua collocazione originaria, nel comparto centrale superiore del Polittico di Pisa, oggi smembrato tra diversi musei, tra la National Gallery di Londra, il Museo Nazionale di Pisa e il Getty di Los Angeles. Vezzoli punta sull’interpretazione ironica della scultura, con un lungo corridoio di busti, dal canone della statuaria classica al realismo di fine ‘800, fino al tripudio di un maestoso Autoritratto come Apollo. Il percorso sfocia in corrispondenza della sezione dedicata al barocco napoletano ma il gioco potrebbe continuare, reiterando la sua composizione modulare in ognuno degli spazi del museo.
Mario Francesco Simeone

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