I pesci disarmati di Alfredo Pirri

di - 26 Aprile 2017
In una fantascientifica società fluida e disarmata Dio può decidere di inviare un suo secondo figlio sulla Terra per sconfiggere il male: questo il plot surreale e avvincente di The Divine Invasion, il secondo romanzo della trilogia di Valis, pubblicato nel 1981 e scritto da Philip K. Dick, uno dei maestri indiscussi della fantascienza contemporanea. Quest’opera, dagli stranianti risvolti teologici, realizzata dall’autore prima della sua morte, parla dello scontro fra il bene e il male e, soprattutto, descrive una società addormentata: “A volte penso che questo pianeta sia sotto un incantesimo. Stiamo dormendo, o siamo in trance, e qualcosa ci fa vedere quello che vuole farci vedere e ricordare e pensare quello che vuole farci ricordare e pensare… siamo ciò che questa “cosa” vuole… significa che non possediamo una vera esistenza”, scrive Dick. Una società dunque che va svegliata/salvata con l’avvento di un inconsapevole Dio bambino. Questo è il mondo filosofico-letterario a cui ha attinto Alfredo Pirri (Cosenza 1957) per concepire il surreale titolo del suo ultimo progetto espositivo, “I pesci non portano fucili”, cominciato il 15 novembre 2016 con la prima mostra, curata da Ilaria Gianni, dal titolo “RWD/FWD” allestita nel suo studio.

Strategica scelta, dato che il miglior modo per capire i processi mentali creativi di un artista è certamente quello di andare a visitare il suo luogo di lavoro che, in quell’occasione, si presentava come una ricchissima banca-dati creativa in cui si alternavano armoniosamente i bozzetti dei lavori realizzati in quarant’anni di carriera, i progetti architettonici, gli inviti delle sue innumerevoli mostre, recensioni e, ovviamente, opere. Inoltre, per tutta la durata della mostra, la sede della Fondazione Nomas di Roma (che ha sostenuto il progetto espositivo), è diventata un vitalissimo laboratorio in cui l’artista ha realizzato Quello che avanza (2017) una grande opera eseguita con la tecnica della cianotipia che apre, come una sorta di sinfonia pittorica blu, il solo show del Macro Testaccio. Anche questa terza grandiosa tappa del complesso progetto espositivo concepito da Pirri (con il supporto curatoriale di Ludovico Pratesi e Benedetta Carpi de Resmini) è una vera e propria immersione all’interno della sua opera dagli anni ’80 ad oggi.
Alfredo Pirri è un artista che, per usare un termine molto in voga potremmo definire “In Between”, in quanto si è cimentato con successo in diversi ambiti creativi dalla pittura alla scultura, dal video alla performance all’architettura sempre tenendo presente il valore della luce come elemento fondante della sua poetica artistica insieme ad un’interpretazione formale, quasi solida, dello spazio. E difatti lo spazio espositivo del Macro Testaccio grazie a questa sua precisa visione di sintesi di spazio, luce e colore è stato architettonicamente trasformato, diventando “Un supporto-tela su cui “dipingere” vuoti e pieni, luci e ombre, in una meditata metamorfosi che ne esalta i valori cromatici, concettuali, simbolici”, come scrive Benedetta Carpi de Resmini.

Le 144 stampe, caratterizzate da intense variazioni cromatiche di blu, realizzate durante i mesi passati alla Fondazione Nomas sono il perfetto biglietto di presentazione di una mostra tutta giocata sulle corde di una coinvolgente perfezione formale e concettuale in cui il colore e la luce sono, appunto, il filo condutture che lega fra di loro tutti e cinquanta i lavori.
Lo spazio, declinato come una metafora della città, intesa come Polis, ovvero come luogo di incontro e scambio più che come groviglio di moduli abitativi, è diviso idealmente in due parti raccordate fra loro dall’opera Passi, forse quella più iconicamente rappresentativa dell’artista perché nel 2011 fu concepita come installazione per lo spazio delle Sala delle Colonne della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Passi è una sorta di ideale soglia specchiante, crepata e precaria, che scricchiola e si frammenta ulteriormente sotto le scarpe dei visitatori che la percorrono per accedere alla seconda parte della sua personale. Passi è la straniante esperienza di camminare su un abisso che si apre all’improvviso sotto i nostri piedi, è la sensazione di guardare il mondo al contrario e di ribaltare il nostro punto di vista per accedere a spazi mentali non preorganizzati.

Uno dei lavori di Pirri a cui sono sentimentalmente più legata è GAS del 1989-1990, forse perché in quegli anni lontani ci siamo conosciuti e mi ricordo che in studio c’erano appese ai muri le tele frottage che avrebbero composto l’opera presentata nel 1990 nella galleria di Tucci Russo di Torino e la serie di multipli donati alla rivista Opening per sostenerla. Le Squadre Plastiche con i loro riverberi colorati sul muro le vidi la prima volta nel 1988 alla Galleria Planita di Roma: erano “schermi rovesciati”, come li definì Carolyn Christov Bakargiev, sequenze di elementi geometrici che a seconda della composizione modulavano lo spazio con una precisa scansione ritmica. Pirri scriveva “sono circondate ciascuna da un alone luminoso (…) si fanno avanti per recare un messaggio”, raccontano “il mutare lento della luce” con la loro immobilità di testimoni mute ma con la loro pittura che si riverbera sulla parete come energia viva.
Al Macro Testaccio Pirri ha ricostruito quel paesaggio con le opere disposte secondo un preciso ordine narrativo come lo aveva concepito per la galleria di Tucci Russo. Ricorda l’artista con Angelandreina Rorro nel libro Passi 2003-2012 (Gli Ori Editore, Pistoia, 2013): “C’erano tre tipologie di opere. Nel piano basso della galleria, lungo le pareti, i frottage a olio su tela che avvolgevano l’ambiente quasi per intero; nello stesso spazio e in modo sparso, disordinato, delle grandi opere tridimensionali disposte orizzontalmente come fossero coricate. Al piano superiore, in un ambiente modificato per creare una divisione netta fra la zona per le opere e quella per gli spettatori, cinque Squadre plastiche, ognuna saturata cromaticamente verso il nero, mentre il colore proprio era percettibile grazie al riflesso di colore puro sulla parete”. La Stanza di Penna (1992-1998) è invece un’opera intima che trae la sua ispirazione dal sofisticato mondo letterario delle poesie di Sandro Penna (Perugia 1906 – Roma 1977) e che l’artista ha esposto per la prima volta nel 1999 al Palazzo delle Papesse di Siena.

“Cento copertine di libri di dimensioni ridotte, realizzate in cartone rivestito di pergamena di vitellino bianca, portano all’interno due risvolti dipinti. le copertine sono poggiate a terra in un ambiente completamento dipinto di grigio; la composizione suggerisce la forma di una città vista dall’alto in una penombra tardo-pomeridiana, con riverberi di pittura che, rimbalzando sulla superficie biancastra della pergamena, realizzano una bolla cromatica che riempie di sé l’atmosfera. Unica fonte d’illuminazione è una lampadina in una piccolissima campana di cristallo che pende dal soffitto. L’opera nasce da una suggestione ricevuta dall’immagine della casa di Penna nel film Umano non Umano di Mario Schifano, dove si vede lo scrittore circondato da libri e quadri sparsi ovunque per terra. Da qui l’idea di realizzare una biblioteca dedicata alla poesia italiana contemporanea che ne porti il nome. Una biblioteca caotica, senza ordine alcuno e senza la possibilità di distinguere un libri dall’altro. L’opera era stata concepita come l’introduzione, il primo passo per la realizzazione di questa biblioteca”, ricorda ancora Pirri. Acque (2007) e Arie (2007) sono opere leggere e luminose che l’artista ha concepito all’interno di un programma di “Arte e medicina” a cui è stato chiamato a collaborare da Marina Engel nel 2007 per l’ospedale romano di Santo Spirito in Sassia. Questi lavori, esteticamente decisamente appaganti e intrisi di un afflato spirituale, tutti insieme costituivano, all’interno del reparto di terapia intensiva del nosocomio, una sorta di “narrazione astratta” e consistevano in un fregio che correva in alto lungo i quattro muri. Il lavoro era costituito da 21 teche in cui degli elementi ad acquarello si alternavano a delle composizioni realizzate con piume d’oca, resina e pigmento. L’acquerello è la tecnica perfetta per evocare l’elemento liquido mentre le piume d’oca la leggerezza dell’elemento aria, i due elementi fondanti della vita.
“I pesci non portano fucili” è una poetica e intensa dichiarazione d’amore per il fare arte, in cui la ricerca si fonde e si compenetra con l’attivismo politico e l’impegno sociale. Attraversare gli ambienti costruiti da Pirri all’interno del padiglione A del Macro Testaccio è certamente un’esperienza affascinante ma, soprattutto, straniante e destabilizzante grazie alla potenza delle opere che in questo caso sono veri e propri “dispositivi di senso” ovvero strumenti per guardare alla realtà in maniera non convenzionale.
Paola Ugolini

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