La peste secondo Gian Maria Tosatti

di - 2 Ottobre 2013

«..Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo….Come ho detto questo Castello risulta di molte stanze, alcune poste in alto, altre in basso ed altre ai lati. Al centro, in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, quella dove si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima….Tornando ora al nostro incantevole e splendido Castello, dobbiamo ora vedere il modo di potervi entrare…mi diceva ultimamente un gran teologo che le anime senza orazione sono come un corpo storpiato o paralitico che ha mani e piedi ma non li può muovere. Ve ne sono di così ammalate e talmente avvezze a vivere fra le cose esteriori, da esser refrattarie a qualsiasi cura, quasi impotenti a rientrare in se stesse». In questi paragrafi estratti dal “Castello Interiore”, scritto da Santa Teresa d’Avila nel 1577 come insegnamento spirituale offerto anzitutto alle sue consorelle carmelitane e poi a chiunque, laico o religioso, la Santa afferma che Dio dimora nel centro della nostra anima ed è possibile arrivare a lui con la pratica della preghiera.
Il Castello della sua visione è un’allegoria dell’anima umana che è divisa in sette stanze. Ogni stanza corrisponde a un grado di elevazione spirituale, l’anima non evoluta, dimora nelle stanze più periferiche e appartiene agli esseri umani basici dominati da istinti bestiali. Anche il filosofo armeno George Ivanovic Gurdjief, nelle sue lezioni parlava di sette tappe evolutive e l’uomo numero uno era l’uomo bestia dominato dalla fisicità e privo di sottigliezza intellettuale.
Gian Maria Tosatti, partendo dagli scritti della Santa e dal numero sette, numero mistico ed esoterico per eccellenza, ha realizzato a Napoli, città in cui il Caravaggio ha dipinto Le sette opere di Misericordia, la prima delle sette tappe di una grande opera “site-specific” che si intersecherà con il tessuto urbano della città dal titolo Sette stagioni dello spirito (a cura di Eugenio Viola, con il sostegno della Fondazione Morra). Il complesso lavoro di riflessione sulla città, vista come una grande metafora dell’essere umano, durerà due anni e verrà realizzato attraverso l’integrazione degli interventi artistici con alcuni particolari luoghi di Napoli in cui è vivo il genius loci che l’artista rivitalizza, rendendolo dispositivo di senso. Il lavoro di Tosatti è cominciato nel cuore dei quartieri Spagnoli, in una zona di degrado urbano e sociale che l’artista identifica con le zone più periferiche dello spirito. Questa prima tappa dal titolo emblematico: La Peste si svolge nell’affascinante chiesa abbandonata dedicata ai SS. Cosma e Damiano a Largo dei Banchi Nuovi, chiusa dal dopoguerra, riaperta grazie alla caparbietà dell’artista che, dopo averla fatta mettere in sicurezza, è intervenuto al suo interno creando un’opera che ci parla di un corpo gravemente malato e prossimo alla morte. Il corpo sociale, l’anima abbandonata dalla luce della grazia, rantola e si dispera nel buio di una cripta, e si perde fra le urla di un quartiere dove la parola è morta e dove anche l’organo ha i tasti bloccati da spesse lastre di vetro, che Tosatti ha incastrato orizzontalmente per impedirgli di essere battuti, perché qualsiasi melodia, qualsiasi musica non può avere ragione di esistere nel caos dell’inferno dove i neomelodici vengono suonati in loop a tutto volume per tutto il giorno. Che cura può fornire il suono delicato di Scarlatti nella confusione perenne?
La Peste per Tosatti, come per Camus, non è altro che una stagione dello spirito, uno stato mortifero di coscienza, l’infezione che in Europa ha ucciso la coscienza di un’intera generazione che ha gioiosamente abbracciato la follia dei regimi totalitari, lo sterminio di massa delle razze inferiori e la guerra come sola igiene del mondo. Nel romanzo di Albert Camus svetta la solitaria figura del medico che a “mani nude” cerca di arginare il flagello biblico, finché c’è il medico può esistere una città da salvare, ma cosa può salvare l’arte, che ruolo è quello dell’artista contemporaneo che lavora sul corpo malato della società?
E nella sacrestia della Chiesa che Tosatti mette in scena la lotta che si svolge all’interno dell’umana coscienza: addormentarsi?, soccombere nella droga della televisione, della disinformazione e dei desideri indotti? Oppure ci ribelliamo e cerchiamo di riprendere la nostra umana dignità, il nostro corpo sano che essendo stato creato a divina immagine dovrebbe rifulgere e risplendere. Il limite tra bene e male è un filo sottile, il medico è un Santo, l’artista è il medico contemporaneo che destreggiandosi fra le metafore apre il bubbone purulento della nostra malattia? Tosatti mette in tensione il passato con il presente, concretizza il genius loci e ci racconta la fragilità di un luogo lasciato a se stesso e privo di protezione. Il portone di cera bianca è la rappresentazione più significativa dell’estrema fragilità di un dispositivo inserito in un contesto sociale violento ma la sfida ha funzionato, dopo quasi quattro settimane il portone bianco è ancora bianco e in quel caos di scritte e graffiti dove non può esistere un centimetro di muro pulito, ancora resiste nel suo incredibile e delicato candore. La bellezza salverà il mondo? Pare di si.

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