La vita e gli spazi abitabili di Mario Merz

di - 12 Maggio 2015
Venezia, la città sull’acqua come gli igloo di Mario Merz (1925-2003) idealmente rappresentano uno spazio per l’arte, in cui un serrato dialogo tra passato e presente traccia narrazioni di futuri in continuo divenire anche attraverso l’utilizzo di materiali comuni e strutture capaci di materializzare ambienti come simbolo di energia vitale. “Città irreale” (fino al 20 settembre, catalogo Skira) è il titolo della mostra ispirato a quelle invisibili di Italo Calvino, omaggio a un protagonista dell’Arte Povera, il più anziano del gruppo, militante antifascista di “Giustizia e Libertà” che aveva letto Marx, forse qualcosa di Bakunin e considerava l’arte come azione sociale e per questo politica. L’esposizione propone un gruppo selezionato di quattordici opere anni 60/70 ospitata nelle Grandi Gallerie dell’Accademia (restaurate e aperte al pubblico per la prima volta), a cura di  Bartolomeo Pietromarchi in collaborazione con la Fondazione Merz .
Il titolo è anche il nome di un‘opera del 1968 che riprende un verso di The Waste Lande, componimento di T.Eliot, composta da una struttura metallica, ricoperta da una rete che “imbriglia” cera e il neon, elementi che aprono riflessioni sulla convivenza tra natura e artificio e che rappresentano una sintesi della sua poetica. Quest’opera accoglie il visitatore e mette in scena nuove possibili spazialità comprese alcune riflessioni sulla dimensione urbana, a proposito della quale l’artista dichiara: «ogni nostra città è irreale e sospesa nel vuoto». Le opere dialogano e alterano la percezione delle auliche sale dell’Accademia, illuminate da luce naturale in cui i suoi igloo (il primo fu presentato a Torino nel 1968), forma archetipica e metaforica, materializzano con materiali diversi una specie di casa primordiale, una “machine à habiter”, avrebbe commentato Le Corbusier, destinati a diventare un codice distintivo del suo lavoro. Queste “capanne” di pietra al fango, di fieno al cotone, di creta o di cera, di ferro, di vetro e anche di pane, rappresentano l’universo di Merz, simbolo della dimensione nomadica, provvisoria e dinamica dell’energia vitale della natura. Lo stesso approccio metaforico vale anche per la Spirale di cera (1994), che racchiude il mistero della vita, la forma per eccellenza del mutamento del tempo, pensata per il museo Haus Lange di Krefeld, firmato Mies van der Rohe, ricostruita per l’esposizione che fagocita anche una maestosa colonna corinzia.

È un segno grafico forte, ideato per evidenziare uno spazio in movimento che rimanda alla forza primordiale e indomabile della natura. Tutto il suo mondo pulsa di vita e tale tensione in bilico tra etica, politica, naturale e artificiale, architettura e società,  è rintracciabile anche nelle sue “case” spiraliformi, ispirate al guscio della lumaca, alla conchiglia, fino al punto di comprenderla nell’architettura primordiale dell’ igloo. La mostra scandisce uno spazio metafisico, attraverso un itinerario di strutture che rendono corporeo soluzioni abitabili stanziali e nomadi al tempo stesso. Da non perdere i bellissimi disegni, un soffio di poesia che nella loro essenzialità testimoniano l’attività grafica dell’artista, in cui in un semplice segno organico c’è tutto ciò che prima o poi diverrà scultura, installazione, basati su principi architettonici in relazione a spazi per l’uomo .
La rassegna lagunare, a 12 anni dalla sua scomparsa e la prima dopo quella del 2005 a Torino, s’innesta perfettamente nelle tematiche sociali e di “Parlamento delle forme” della 56° Biennale politicizzata di Okwui Enwezor (1963), curatore nigeriano che vede nell’arte una possibilità di salvare il mondo, ma anche di evidenziare complessità e contraddizioni di lotte di classe, disparità sociali, culturali, economiche e geografiche con l’obiettivo di investigare la realtà sotto una lente marxista.

In questo contesto “post-settantottino”, dove però non c’è nulla di rivoluzionario, rivolta al passato più che al futuro, la mostra di Mario Merz, è una soffio di aria fresca, con opere che trasudano di assoluto e per quanto complesse al primo impatto, mantengono una loro autoreferenzialità poetica e si confrontano con la classicità. Seppure esplicitamente legate ai fermenti culturali degli anni 60/70, le opere esposte sondano potenzialità intime di spazi simbolici non precostituiti, soggettivi e collettivi al tempo stesso, come è l’igloo, attraverso un lavoro orientato sul concetto di spazio: una colonna portante della sua ricerca.
Con la sua arte libera e radicale, Merz sonda la relazione dinamica tra uomini e ambiente, per lo più con forme rotonde che ogni volta cambiano posizione, che rispecchiano l’incessante ritmo della vita, alla ricerca di spazi per l’arte in cui si evidenzia l’idea di movimento, crescita, espansione. Più marcatamente dagli anni ’70, quando l’artista inserisce la sequenza del matematico Leonardo Fibonacci (in cui ogni numero è la somma dei due precedenti), si capisce che una sequenza numerica è al contempo organica, come appare nella indimenticabile serie di fotografie in bianco e nero Senza Titolo (Una somma reale è una somma di gente) (1972), in cui la numerazione non è al neon come si vede in altre opere, ma viene applicata alle persone che siedono nel locale attorno a un tavolo, altro elemento simbolico ricorrente nel lavoro di Merz, “spazio” della nutrizione, socializzazione e di scambio di pensieri, parole e sensazioni.

Dalla spirale, all’igloo, al tavolo (che non compare in mostra) da interpretare come strutture aperte che evocano la crescita dinamica delle cose, divengono forme di spazi e le opere in mostra  interagiscono armoniosamente con l’architettura. Seduce lo sguardo Igloo (di Marisa) del 1972, pensato per la quinta edizione di Documenta, morbido, sinuoso e ricoperto da alcuni  panini di tessuto realizzati da Marisa Merz, con cui l’artista intraprende un proficuo sodalizio nella vita e nel lavoro, rassicurante illuminata da neon, flussi di energia in scatole di plexiglas che rappresentano il segno infinito della luce.
Non uscite dalle grandi sale dell’Accademia senza attraversare l’installazione 74 gradini riappaiono in una crescita di geometria  concentrica (1992), gruppo di otto igloo di angolari in ferro trattenuti alla base da veri scalini in pietra, strutture curvilinee, leggere, ricostruite nel cortile del museo in armonioso e silente dialogo con la facciata del Palladio, che acquistano ancor più senso se vissuti ed esperiti come  spazio di meditazione.
Jacqueline  Ceresoli

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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