Lichtenstein, | fumetto mon amour. | Ma non solo

di - 30 Settembre 2014

«In quasi mezzo secolo di carriera ho dipinto fumetti e puntini per soli due anni. Possibile che nessuno si sia mai accorto che ho fatto altro?». A chiederselo era Roy Lichtenstein, e aveva ragione. Solo per dirne una, tempo fa a New York sono stati esposti dei sorprendenti Landscapes. Ma lui rimarrà nella storia dell’arte per i suoi fumetti puntinati. Da questo punto di vista, la mostra di scena a Torino non fa eccezione, anche se  si concentra sull’idea dell’inizio – “Roy Lichtenstein. Opera prima”, è il titolo della rassegna (fino al 25 /I/2015) – e ripercorre attraverso un grande repertorio di opere, specie disegni, il profilo dell’artista americano.
Ma la mostra alla GAM, curata da Danilo Eccher e realizzata in collaborazione con l’Estate e la Roy Lichtenstein Foundation, è anche un’occasione unica per ricordare i mitici anni ‘50 e ’60 delle Cadillac, del twist, delle gonne a ruota e dei coloratissimi diner. Come ricorda Eccher, la Pop Art americana ha segnato la vita, non solo la storia dell’arte della seconda metà del Novecento. È stato un mezzo ironico e dirompente per raccontare la contemporaneità, ha abituato le persone a guardare la società che gli stava intorno, la bellezza quotidiana che gli passava accanto, a considerare qualcosa che si vedeva ogni giorno e che chiunque poteva riconoscere, come arte. La Pop Art restituiva visibilità all’enorme mondo degli oggetti familiari. Pur nella loro serialità, le immagini di massa e gli oggetti comuni svelavano un proprio valore estetico, la decontestualizzazione operata contribuiva alla creazione di un nuovo racconto marcando un punto di non ritorno sul piano del linguaggio estetico.

Lichtenstein scelse l’iconografia del fumetto e della grafica pubblicitaria per ingrandirla a dismisura e riportarla sulla tela, senza mediazioni estetiche, con una pittura uniforme, il più possibile simile all’inchiostratura dell’editoria popolare, con l’utilizzo dei colori primari, il rosso, il blu, il giallo e il nero ombreggiati con il tipico retino tipografico Ben-Day. Si rese conto che, cambiando qualche tratto e riorganizzando appena la composizione, qualsiasi immagine poteva essere trasformata in una vera opera d’arte. Come nota il curatore, la mostra si pone come conclusione di un’ideale trilogia di eventi dedicati a Lichtenstein, la retrospettiva alla Tate Modern di Londra nel febbraio scorso e la successiva esposizione al Centre Pompidou di Parigi.
La mostra torinese, costituita da prestiti provenienti da prestigiosi musei internazionali come la National Gallery di Washington, il MoMA e il Whitney Museum di New York, l’Art Institute di Chicago, da collezioni pubbliche e private e dalle opere di casa Lichtenstein, presenta la parte più privata e autentica del lavoro dell’artista, 235 opere dagli anni ’40 al 1997 (anno della morte dell’artista), per la maggior parte disegni preparatori, studi e bozze, ma anche alcuni grandi dipinti e fotografie, che indagano le variazioni stilistiche del processo creativo dell’opera su carta.

I disegni di Roy Lichtenstein finora sono stati esposti solo in qualche rara occasione: al CNAC di Parigi nel 1975 con la mostra Roy Lichtenstein: Dessin sans bande , nel 1987 il MoMA ha organizzato l’esposizione The drawings of Roy Lichtenstein, infine un nucleo di opere su carta è stato esposto nel 2005 presso il Museo de Arte Abstracto Español nella mostra Lichtenstein: En proceso/In process. Dorothy Lichtenstein, la vedova dell’artista, racconta che per Roy «disegnare era l’essenza dell’arte. Ne ricavava e ne vedeva ovunque le potenzialità: nelle opere degli altri, nella pubblicità, nel design e alla fine la trovò perfino nei fumetti, l’espressione artistica in assoluto più svilita. È pensiero comune che Roy fosse un accanito lettore di fumetti. In realtà vi si avvicinò solo alla soglia dei quarant’anni, quando, guardando quelle immagini cosiddette “basse”, vide le loro possibilità. Dopo aver terminato i primi dipinti ispirati ai fumetti mi confidò di averli trovati talmente diversi dall’arte con cui era cresciuto da dover lavorare su di sé per superare il suo stesso giudizio. La loro forza, però, era così dirompente che non poteva più tornare indietro». Nascono così opere che hanno per protagonisti Mickey Mouse, Bugs Bunny e Donald Duck, personaggi fantastici di una singolare storia americana giocosa e spensierata.

Il percorso espositivo si sviluppa a partire dal concetto di opera prima. Questi lavori, come spiega Jack Cowart, Direttore della Roy Lichtenstein Foundation, sono l’unico modo per capire la profondità del messaggio di Lichtenstein perché nella successiva trasposizione su grandi tele, scompare inevitabilmente parte dell’immediatezza e dell’umorismo delle sue immagini. I suoi disegni sono opere autonome. Per ogni dipinto, stampa, poster o scultura che fosse, Lichtenstein partiva sempre dal disegno. La costruzione rigorosa nella definizione dell’immagine, la frammentazione della storia, l’essenzialità del cromatismo, la figurazione eccentrica e diretta raccontano una nuova idea di bellezza, un diverso senso dell’arte.
I principi della comunicazione visiva, i codici linguistici della pubblicità, dei fumetti e dei film hollywoodiani sono uno strumento di immediata comprensibilità per un’interpretazione sociologica dell’ordinario nell’epoca dei mass media. «Il soggetto dell’opera non è tanto il personaggio in sé quanto la sua rimodulazione secondo una pratica rigorosamente artistica che riconosce il dettaglio, ne modifica le proporzioni, ne percorre e ripercorre infinite volte il tratto, il foglio si svela nella sua duplice veste di analisi formale del disegno e pretesto narrativo», aggiunge Jack Cowart. E lo dimostrano lavori come Abstraction –untitled drawing (1959) nella quale l’analisi formale si concentra sull’essenza del colore, sulla stesura semplice, sull’aspetto strutturale interno all’opera. Tutto ciò diviene più chiaro nelle opere dei primi anni Sessanta: Knock Knock, Airplane, Cup of Coffee, Zipper e Ice Cream Cone, e successivamente Shockproof e Bread and Jam in cui la forza evocativa dell’immagine non ricorre a nessuna ambientazione. Lichtenstein suggerisce solamente l’ipotesi seriale della riproducibilità, lasciando la libertà di contestualizzazione del frammento alla complessità del pensiero dello spettatore.

È il caso di Von Karp, Oh Jeff… I love you, too… But… e Explosion – Study. Tutta la ricerca artistica di Lichtenstein ruota intorno all’idea di serializzazione, stilizzazione, e appropriazione. Tra i suoi modelli d’ispirazione spicca la figura di Matisse a cui dedica una serie di disegni e opere di interni come ad esempio Goldfish Bowl o Picture and Pitcher (Study), ma anche Picasso e le atmosfere surrealiste di Mirò, Salvador Dalì, Yves Tanguy e Max Ernst che affiorano in disegni quali Drawing for girl with tear II and girl with tear III del 1976, Drawing for landscape with figures dell’anno successivo e Drawing for figures with trylon and perisphere and other drawings o ancora Drawing for nude on the beach sempre del 1977. Art about Art Cover (Studies) del 1978 riprende invece le sperimentazioni sul significato di opera d’arte alle quali lavoravano molti artisti negli anni Sessanta, tra cui Giulio Paolini.
L’allestimento è curato dall’Architetto Rino Simonetti e se, osservato dall’alto, riproduce l’effetto delle celebri Explosion di Lichtenstein.
Contribuiscono a rendere ancora più divertente la mostra una serie d’iniziative “a tema”: workshop, degustazioni, aperture serali, cup pop art e un nail bar.

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