Lichtenstein le Parisien

di - 4 Settembre 2013
Siamo nel 1964 quando la Biennale d’Arte di Venezia premia Robert Rauschenberg, tra polemiche e entusiasmi, l’evento segna l’ingresso della Pop Art americana in Europa e con esso il gruppo di artisti che ne fanno parte. Tra questi figura Roy Lichtenstein (New York, 1923 – 1997) che non tarda a diventarne un autorevole riferimento. La prima retrospettiva di Lichtenstein in Francia risale al 1982, preceduta nel 1963 dalla prima esposizione europea presso la galleria Sonnabend in collaborazione con Il Punto Arte Moderna di Torino. A distanza di quasi 50 anni l’artista newyorchese fa parlare ancora di sé: la mostra parigina (fino al 4 novembre, a cura di Camille Morineau), è alla sua ultima e quarta tappa, organizzata con l’Art Institute di Chicago e la Tate di Londra, è stata anche presentata alla National Gallery of Art di Washington.
Come progettare una mostra su Lichtenstein senza imbattersi negli innumerevoli clichè che lo riguardano? «Per organizzare questa retrospettiva sintetica e politecnica, sono partita dalla sua visione delle cose e dalle sue parole, soprattutto dall’invito anzitempo dell’artista stesso ad andare oltre le idee preconcette sulla Pop Art e il suo lavoro in particolare. Infatti, in una delle sue prime interviste nel 1963, traduce con lucidità profetica la sua fascinazione per i temi pop e l’incomprensione riguardo la specificità della loro forma. Ci svela la sua propria tensione interna al movimento pop (…) come un’azione-reazione tra immaginario e forma, lettura e struttura, figurazione e astrazione», spiega Camille Morineau.
La mostra, divisa in dieci sezioni, parte dall’inizio degli anni Sessanta, quando Roy Lichtenstein, ispirandosi ai fumetti per bambini, dipinge Mickey Mouse e Donald Duck (1961), scelta di campo che segna una rottura con l’Espressionismo Astratto degli anni precedenti. Sono gli anni in cui inizia a creare ingrandimenti estratti da fumetti in un linguaggio stilizzato come è nell’illustrazione commerciale. Immancabile la mitica tela Whaam! (1963) ma anche il ritratto del presidente statunitense George Washington (1962), icona associata alla banconota da un dollaro. Sono gli stereotipi della cultura americana, il potere che le immagini ordinarie hanno di diventare delle vere e proprie icone popolari ad affascinare l’artista, che riquadra e ritrae con contorni neri, colori a tinta unita e i famosi puntini per le mezze tinte che rimandano alla stampa a larga diffusione.
Lungo la retrospettiva vengono fuori aspetti meno noti, tra questi le opere che s’ispirano alla storia dell’arte moderna, i cui capolavori diventano soggetti riproducibili. In diversi momenti della sua carriera l’artista s’ispira a Picasso, modello costante, a Mondrian, a Cézanne e alla Cattedrale di Rouen o al Pagliaio di Monet la cui serialità del modello si presta alla produzione multipla, fino ad arrivare alla serie degli Artist’s Studios che si basano sulla composizione dell’Atelier rouge (1911) di Matisse e il suo famoso La Danse (1909), che fa da sfondo ad Artist’s Studio “The Dance” (1974).
Ma sono presenti anche opere perlopiù astratte, rilettura di forme geometriche e ripetitive tipiche dell’Art Déco e del Modern Style. «Quello che m’interessa nell’arte del 1930 è che questa è concettuale. Obbedisce ad una logica insensata basata sul compasso, la squadra e il triangolo. Credo sia stata la prima volta nella storia in cui gli artisti volevano essere moderni […] la loro arte ha una raffinatezza ingenua e fiduciosa che mi piace», afferma Lichtenstein. A riguardo nel 1977 il Centre Pompidou compra Modular Paintings with Four Panels #4 (1969), un’opera composta da quattro tele identiche che, unite, formano un’unica opera che può comporsi all’infinito.
Ricercatore inarrestabile, dall’inventiva tecnica straordinaria, grande sperimentatore di materiali, Lichtenstein spesso mescola diverse tecniche in una singola immagine (serigrafia, litografia, acquaforte, xilografia, goffratura, ecc.), utilizzando ogni tipo di materiale (carta, plastica, metallo, fogli, ecc.), tra cui l’uso dell’acrilico Magna e del Rowlux, quest’ultima è una pellicola di plastica trasparente il cui aspetto cambia a seconda della luce, offrendo così nuove proprietà cinetiche. Presenti alcune opere della serie Brushstrokes, il noto colpo di pennello che appare nel 1965, simbolo dell’arte. È attraverso questa tecnica che realizza quadri che oscillano tra il figurativo e l’astratto. Il Pompidou ospita inoltre Mirrors, una serie di tele ovali, rotonde e rettangolari che raffigurano specchi, oggetto metaforico di riflessione sulla visione e la rappresentazione.
Ma la Pop Art riesce ancora oggi nel suo intento di rappresentare il mondo così com’è? Perché no! In una società in cui le immagini, tra cui quelle pubblicitarie, che non ha mai cessato di riproporre gli stessi ideali, rigorosamente aggiornati, con modelli sempre più patinati, belli e leziosi, le opere di Lichtenstein sembrano introdursi naturalmente nell’odierna cultura popolare. Prendiamo le prime donne rappresentate dall’artista nel 1963, parallelamente ai quadri ispirati alle storie di guerra, entrambi tratti da fumetti e riviste per adolescenti, erano romantiche donne che s’incontravano in Secret Hearts o Girls’ Romances, e incarnavano l’ideale maschile della donna alla moda rimandano a quello steoreotipo che invade ancora le nostre edicole. Ne è un esempio Nudes with Beach Ball (1994), in cui l’artista per la prima volta si confronta con il nudo femminile. È il 1993, quando appaiono una serie di donne nude, ritratte sole o a gruppi, ora giocando a beach volley o in appartamenti stilizzati, dai corpi slanciati e glabri, rispondono, oggi come vent’anni fa, a rigidi canoni di bellezza. La retrospettiva termina con delle opere del 1997, pochi mesi prima della sua scomparsa. Qui Lichtenstein appare molto più classico, presenta meditativi paesaggi zen quasi monocromatici, ispirati alle pitture cinesi della dinastia Song del decimo e dodicesimo secolo. L’artista, più che rendergli omaggio, sembra esplorarne la meccanicità ma sempre con il suo immancabile tocco umoristico, un po’ pop.

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  • Il lavoro di Roy Lichtenstein non mi conquista del tutto, apprezzo l'intenzione progettuale, ma trovo che negli anni sia rimasto alquanto statico

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