Luigi Presicce, fuori dal coro

di - 24 Gennaio 2015
Fuori c’è la confusione del mondo, il caos, il disordine e d’un tratto siamo catapultati davanti a una scena immobile, che con autorevolezza sbarra la strada a quel rumore. L’immagine è fissa, ci guarda, più che essere noi a guardare lei. Si presenta con una determinazione alla quale non ci si può sottrarre. Come accade anche con le immagini (ma diversissime) di Candida Hӧfer, percepiamo che prima è successo qualcosa. Anche qui è successo qualcosa, anzi molto. Tutto il movimento che immaginiamo esserci stato, un movimento complesso, “operoso” che non trascura nessun dettaglio, ora però appare come sublimato in questa immagine ieratica. Che ha la forza di qualcosa di primigenio. È anche un’immagine silenziosa. Sì, anche quando c’è il suono, i tableaux vivants di Luigi Presicce evocano il silenzio. Una sospensione anche acustica.
La mostra in corso ancora per qualche giorno alla Pescheria di Pesaro (a cura di Ludovico Pratesi, catalogo Silvana editoriale) mette in scena tanti di questi momenti di sospensione, gli atti finali di azioni che Presicce prepara con estrema cura, coadiuvato da un team di fedelissimi, e di cui noi vediamo solo l’esito. Anche quando è alle prese con delle performance, queste in realtà sono poco “narrative”, il tratto di fissità prevale, come se ci fosse poco da raccontare e molto da pensare. Come se quella immobilità portasse a interrogarsi su noi stessi. Su quello che si vede e quello che non si capisce. Su quello che immaginiamo e quello che non sappiamo. Ecco, il lavoro di Luigi Presicce è una sfida continua allo sguardo altrui, anche nel rovesciamento dei ruoli che produce, per cui si ha quella sensazione straniante di essere scrutati da quelle immagini così al di fuori di ogni prevedibilità.

E in un certo senso ci dobbiamo ritenere fortunati. Perché, se fosse per lui, non vedremmo niente. Almeno quando Presicce mette in scena una performance, il cui accesso spesso è consentito a uno o due spettatori alla volta. «Ma se potessi scegliere, le farei sempre senza pubblico. Per me sarebbe la soluzione ideale. Il pubblico c’è solo perché mi è richiesto di fare così». Ha senso una performance senza il destinatario naturale? Sì, a quanto pare. Non solo perché il pubblico in genere cerca forme di intrattenimento, come spesso ha denunciato l’artista, e quindi può accontentarsi della ricaduta di foto o video. Soprattutto la sua presenza non è decisiva per la performance che non a caso Presicce definisce “arte liturgica”.  Per lui conta altro: i riferimenti alla nostra tradizione, con quei richiami archetipici, soprattutto visivi, quasi un dna che, dagli occhi, segna la sensibilità e la mente, molto ricorrenti nelle sue performance, evocazioni religiose e riferimenti alla storia dell’arte, per esempio Beuys, l’artista sciamano, e il coyote con cui cercava di confrontarsi.  Anche Presicce spesso ricorre alla presenza di animali, come ad esempio è stato nella Benedizione dei pavoni, di cui abbiamo visto un frammento in video rispetto alle sei ore che è durata effettivamente la sua liturgia, alla quale sono stati ammessi, come spettatori, solo due bambini e con cui nel 2011 si aggiudica il premio Talenti Emergenti promosso dalla Strozzina di Firenze. E gli animali rimandano anch’essi a qualcosa che non è esattamente nella quotidianità del nostro mondo.

Anche la scelta dei luoghi spesso è anomala: cave d’argilla e delle Alpi Apuane, chiese e antichi palazzi salentini (è nato a Porto Cesareo in provincia di Lecce nel 1976), dove spesso a comparire in scena sono performer, o lui stesso, con il volto coperto, «ma solo per proteggerne l’identità», spiega lui. E se gli si fa osservare che i riferimenti delle sue liturgie non sono così scontati, che bisogna conoscere la religione e la storia dell’arte, Presicce risponde che in realtà «non c’è niente da capire. Basta guardare, al massimo leggere il foglio di sala».
Un tipo fuori dal coro, Luigi Presicce, a partire da come si propone, lunghi capelli neri raccolti uno chignon, vestito sempre con studiata eleganza. Ma oltre l’aspetto fisico la sua eccentricità si misura soprattutto dalle scelte di campo fatte. Via via Presicce ha messo in piedi o partecipato a collettivi di artisti che si muovono seguendo logiche indipendenti non tanto rispetto al mercato (lui sta con la galleria Bianconi), ma nella visione e progettazione del lavoro. Anni fa, insieme a Luca Francesconi e a Valentina Suma fondò la rivista Brownmagazine , da cui è nato Brown Project Space di cui cura la programmazione. A Lecce, nel 2011, ha fondato “Archiviazioni” con Giusy Checola e Salvatore Baldi per riflettere sul sud contemporaneo e ogni anno, sempre in Salento, insieme a Luigi Negro, Emilio Fantin, Giancarlo Norese e Cesare Pietroiusti dà vita a una particolare liturgia che dalla Puglia è arrivata a Kassel per dOCUMENTA13: Lu Cafausu, la Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte), per cui dall’alba al tramonto si compie un viaggio rituale insieme a una persona cara, scomparsa.

È decisamente interessante l’affermazione di questo artista che lavora, appunto, sulla ritualità, dopo aver capito che la pittura, con la quale aveva iniziato, non era più il linguaggio adatto per avvicinare e mostrare il mistero. È interessante perché il suo lavoro nasce proprio da un’esigenza di sospensione da quel rumore di fondo che accompagna le nostre giornate e che cattura chi ne avverte il disagio. In genere gli artisti si contrappongono al frullato consumistico in cui ruotiamo con opere, immagini, a volte anche comportamenti a “bassa definizione”, lavorando cioè di sottrazione rispetto al di più in cui siamo dentro. Presicce invece aggiunge molto, evocando a volte certi barocchismi visivi della sua terra di origine, che non a caso ha dato i natali a un grande barocco contemporaneo, Carmelo Bene. E, come Bene, in questo “di più” con cui satura le sue immagini, Presicce ci fa intravedere un altro mondo. Antico, denso, rituale e, che lui sia d’accordo o meno, enigmatico. E in questo modo coglie nel segno.        
Adriana Polveroni

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