Materico e effimero paesaggio indiano

di - 21 Aprile 2019
Sheela Gowda concepisce la sua prima grande mostra personale in Italia al Pirelli HangarBicocca raccogliendo gli ultimi decenni del suo lavoro. Le pareti delle Navate fanno da quinta architettonica a un paesaggio unitario ritmato dalle opere che testimoniano le pratiche dell’artista indiana. Una ricerca attuata nella quotidianità che senza derive esotiche racconta ritualità, usi, società e politica dell’India contemporanea.
Sheela Gowda (Bhadravati, Karnataka, India, 1957, vive e lavora a Bagalore) si forma dapprima come pittrice in India e successivamente frequenta il Royal College of Art di Londra. Una volta tornata nella sua terra, i cambiamenti politici e sociali che stavano avvenendo alla fine degli anni Ottanta la portano a considerare un approccio diverso alla materia e a dirottare il suo linguaggio dalla bidimensionalità della superficie pittorica verso lo spazio tridimensionale.
I “Remains”, ovvero i resti a cui si riferisce la mostra sono quelli materiali, conseguenza dell’abbandono o frutto della lavorazione, inutili e intoccabili o riutilizzati e vitali; ma anche quelli organici, dei quali rielabora i molteplici usi concreti e simbolici traducendoli in oggetti metaforici. Quella che porta avanti Gowda è una poetica ambivalente, che sovrappone a un evidente processo materiale di trasformazione un’estetica dell’effimero.
Sheela Gowda “Remains”,veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019 Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca Foto: Agostino Osio
Il percorso inizia con una composizione di due opere (And That Is No Lie, 2015, It Stands Fallen, 2015-16): dei pali sospesi e altri a terra autoportanti, uniti a drappi rossi, danno vita a un’installazione che, articolata in una duplice spinta di sospensione e collasso, decostruisce e reinterpreta la shamiana, una struttura per celebrazioni religiose e laiche. Entrando nel vivo dell’esposizione si percepisce l’uso modulare ed essenziale che Gowda fa dei materiali. I bidoni di catrame vengono usati come unità che, intatti o modificati, creano ambientazioni simboliche. Kagebangara (2008), Darkroom (2006), Chimera (2004) e A Blanket and the Sky (2004) sono rielaborazioni architettoniche ispirate alle dimore provvisorie, costituite proprio di barili, che gli operai dei cantieri stradali costruiscono come rifugio notturno sul posto di lavoro. Con Stopover (2012) l’artista ridefinisce la funzione rituale di 200 mortai per spezie caduti in disuso che, incastonati e riambientati su un un fondale bianco e una griglia a terra, ottengono un’altra esistenza formale. In What Yet Remains (2017) rende palese il processo di produzione che prevede l’intaglio e la modificazione di tondi modulari su lastre metalliche dai quali si ricavano dei recipienti, chiamati bandli, usati per il trasporto manuale di materiali edili. L’installazione, normalmente esposta a parete, viene adagiata e distribuita a terra dall’artista che compone variabilmente i bandli finiti con le loro matrici che a loro volta sono impiegate per creare delle sculture. I resti ai quali rimanda il titolo della mostra non sono solo materiali residuali, in altri casi sono scarti di natura organica come lo sterco bovino che in India ha molteplici funzioni: energetica, edile e ludica. In principio Gowda l’ha utilizzato come pigmento nella pittura e successivamente allo stato grezzo, declinandolo in varianti formali e simboliche. Mortar Line (1996) è un lavoro caratterizzato da un assetto scultoreo in cui lo sterco è usato sia come struttura che come collante. I mattoni, dalle fattezze industriali, sono invece fatti a mano, e l’andamento sinuoso che rimanda al minimalismo nasconde una traccia di kumkum, un pigmento rosso a uso rituale. L’effetto plastico è meno presente in opere in  cui è usato lo stesso materiale, come Untitled (Cow dung) (1992-2012) e Stock (2011), dove la forma è variabile e l’intervento manuale più evidente. Nel percorso espositivo l’intenso rosso del kumkum trova altre applicazioni, come in And… (2007) che evoca forme organiche e Breaths (2002) che dissimula dei tronchi bruciati.
Sheela Gowda Untitled (Cow Dung), 1992-2012 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019 Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca Foto: Agostino Osio
L’assiduità con la quale l’artista raccoglie e manipola quello che incombe nella sua esperienza la rende capace di integrarsi con il contesto che la ospita. Come ha fatto nel 2015 con i tessuti trovati nei mercati di Hong Kong utilizzati per If You Saw Desire, così Gowda ha concepito Tree Line (2019): un’installazione in cui viene utilizzata una gomma (materiale usato anche in Black Square, 2014, presente in mostra) prodotta grazie alla collaborazione con il centro di ricerca e sviluppo dell’azienda Pirelli. Per trattare temi più strettamente politici e sociali l’artista utilizza un prodotto finale dell’editoria, il quotidiano, come materia prima della sua personale rielaborazione. Due gigantografie fotografiche riprese da articoli che documentano eventi rivoltosi e dimostrativi di categorie professionali e minoranze sociali (In Public, 2017, Protest My Son, 2011) sono rese tridimensionali dall’inserimento di oggetti. In Sanjaya Narrates (2004) e Best Cutting (2008) Gowda compie due interventi diversi e per certi versi opposti tra loro. Nel primo caso riproduce con la tecnica dell’acquerello dei particolari di un’immagine che immortala una tragedia, nel secondo assembla in digitale delle pagine di quotidiano con articoli e foto di violenza affiancati a pubblicità, per poi disegnarvi sopra dei cartamodelli. In questi due casi l’abilità dell’artista sta nel denunciare la violenza senza esibirla: da un lato insiste su dettagli di una scena truce tanto da renderla astratta, dall’altro sembra prenderne le distanze con ironia rivelando anche i limiti della narrazione cronachistica.
Sheela Gowda Stopover, 2012 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019 Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca Foto: Agostino Osio
Quasi a delimitare lo spazio delle Navate, gli stipiti di porte smontati e riassemblati di Margins (2011) pongono l’attenzione sui concetti di confine e di passaggio. Nell’ambiente del Cubo trovano spazio geometrie inaspettate. Ritorna l’uso di un materiale organico che porta ancora una volta con sé usi e significati ambigui. In alcune zone dell’India i capelli umani hanno una funzione votiva nei riti religiosi, scaramantica se posizionati sulle automobili ed economica quando vendono venduti sul mercato globale. Circa quindicimila metri di capelli intrecciati sono appesi a parete in due installazioni (In Pursuit of, 2019) che ricalcano da un lato la luce della porta d’ingresso al Cubo e l’ingombro della porta stessa dall’altro. Nello stesso spazio Collateral (2007) dimostra in modo esemplare il processo che porta il concreto alla precarietà. Su telai metallici sono disposte varie forme di incenso: l’impasto di corteccia e carbone di cui sono composti quelli integri, la cenere che resta dalla combustione di quelli bruciati e l’odore che aleggia nell’ambiente rivelano la consistenza effimera della materia.
Con un linguaggio contemporaneo Sheela Gowda testimonia usanze tradizionali e odierne dell’India e maneggiando sapientemente strumenti poveri varca i costrutti culturali dell’osservatore occidentale. L’artista costruisce un paesaggio metaforico quanto reale, le suggestioni olfattive e coloristiche portano con sé l’idea che la materia si fa simbolo e l’esperienza si fa contemplazione.
Matteo Gnata

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