Maurizio Nannucci. Fiat lux et verbo

di - 6 Luglio 2015
Di Bartolomeo Pietromarchi s’erano un po’ perse le tracce, a parte la positiva esperienza dell’omaggio veneziano a Merz, e almeno da quando non è più lui ad avere sul groppone il Macro. Dell’altra “ingombrante” realtà museale romana, il Maxxi, invece non si finisce mai discutere. Il vero protagonista ora però è Maurizio Nannucci (Firenze, 1939), al centro di un’antologica in cui,  più dei neon, splende la perseveranza di un artista che, di primavera in primavera, si mantiene sempre attuale.
La mostra Where to start from al Maxxi, a cura di Pietromarchi (fino al 18 ottobre), riporta un Nannucci contemporaneo ad honorem, senza gap cronologici, risaltato dal pregio di una ricerca che lungo il suo percorso mai è diventata l’ombra di se stessa. Cinquant’anni circa d’attività, da cui esce una figura meno concettuale di quel che sembri, e anche meno languidamente poetica di quanto la colorata luminescenza di New Art Fly – con le sue sovrapposizioni verbali alla Paolini poverista e una posizione rialzata (tanto in alto da essere quasi defilata però) – portino a ritenere. Difficile a immaginarsi per alcuni, forse, ma più che poetico Nannucci appare realista, nelle sue frasi concise e condivisibili, nella ricerca cromo-lessicale, e anche quando la sua grafomania l’ha indotto a sfruttare performativamente un liquido come superficie testuale in Scrivere sull’acqua. Fautore di una ricerca espressiva alternativa al concettualismo puro e alle sue potenziali digressioni autoreferenziali.

Comunque sia, andare a visitare una mostra allestita al Maxxi porta (o obbliga) a fare i conti col Maxxi. Che essendo più o meno una creatura a sé, dotata di vita propria (le archistar a volte generano anche questo tipo di filiazioni) richiede una valutazione a parte per stabilire la sua “condotta”, ossia come il museo si è confrontato con l’artista e le sue opere.
C’è da dire che le installazioni luminose di Nannucci s’integrano perfettamente con la struttura progettata da Zaha Hadid, piena di curvoni su cui le frasi brillanti scivolano che è un piacere. Purtroppo non è tutto neon quel che luccica, e se in generale nei lavori del toscano pullula quella concretezza poetica fatta di contenuti, il loro rapporto con un’architettura museale troppo piena di sé necessariamente funziona in modo relativo. Va ribadito: all’interno di alcuni spazi del Maxxi, e la galleria 3 – che ospita la mostra – è tra questi, l’estetica ha giocato un brutto scherzo alla funzionalità (un museo deve essere fruibile oltreché “avveniristicamente bello”, direbbe monsieur de La Palisse), e in mezzo ad iperbolici saliscendi tutto appare troppo fluttuante e precario, come in un corridoio.

Intollerabile è ad esempio che l’arrivo alla fatidica galleria possa diventare un’impresa. Addentrarsi nel Maxxi può richiedere tempo extra e l’ausilio di tanta buona fortuna. Per due semplici motivi: cartelli a muro con indicazioni fallaci e guardiania – seppur baldanzosa e solerte – dalle idee un po’ confuse su come indirizzare un visitatore di “primo pelo” (la maggior parte sono stranieri) alla meta. E una volta arrivati, la magniloquenza voluta dalla Hadid non si presta a creare un percorso unitario, ma ancora quei saliscendi scenografici che “chissà di là dove si va a finire”. C’è però spazio e altezza, almeno quelli, e ciò in generale per gustarsi i lavori di Nannucci aumenta di qualche punto il grado di soddisfazione.
Morale della favola il percorso razionalmente ipotizzato da Pietromarchi rischia il naufragio, con visitatori che beccano l’inizio, altri che iniziano dalla fine, altri ancora che non sanno dove andare. E ovviamente a parte le rituali decalcomanie col titolo mostra, alle pareti null’altro interviene ad identificare opere e poetica. Ci si scorda troppo spesso che i musei non sono “un paese per (soli) esperti”? Certe incongruenze sono accettabili in una galleria privata, non in una sede tanto istituzionale, dove “mostra” dovrebbe essere anche cura del comparto esplicativo-didattico, qualcosa in più dello scegliere i pezzi e “mostrarli” con senso curatoriale.

Lodi sperticate allora a quel grazioso opuscoletto in distribuzione, condito d’immagini e testi vari; di buona fattura, supporta egregiamente l’entrata in un flusso di parole e colori che è prima di tutto prodotto di lavorato sulla semantica lessicale. Esempio pratico: un piccolo tubo neon raso terra forma la parola “corner”, curvato di 90 gradi per essere posizionato in un angolo. Parola e significato collimano al millimetro. Sulla stessa scia lavori come Alfabetofonetico, di un anno precedente (1967), Who’s afraid of blue, red and yellow (1970), in cui a valore cromatico scritto coincide il suo valore cromatico esperienziale; una pratica passata necessariamente per la razionalità impostata e decorativa dei Dattilogrammi dei primi anni Sessanta, prototipo nannucciano del colore come parola semanticamente applicata ad una pigmentazione ben precisa (con qualche eredità di Malevič nello scrivere “blue” in blu su foglio blu).

Fatta pace con la preistoricità delle musicassette di Testi sonori e radiopoems (il suono è una parte integrante dell’opera di Nannucci), tra la moltitudine di multipli esposti i due barattolini del ’68, col packaging simile alla merda d’artista più famosa al mondo, sono il sintomo che gli anni Sessanta hanno lasciato la loro impronta un po’ ovunque. Do it yourself (col sottotitolo homage to Malewitsch non casuale) contiene smalto sintetico, mentre l’etichetta riporta passo passo tutte le modalità per realizzare una figura geometrica tra le quattro riportate (quadrato, cerchi, triangolo, croce). Si otterrà così «un mio originale», parola (scritta) di Nannucci, che qui sviluppa un discorso sulla producibilità e riproducibilità dell’opera d’arte causticamente manzoniano, pur essendo opposto a Manzoni stesso e al valore individualistico della sua “merda”.
Finale (o inizio a questo punto, vedete voi) rilassante con la serie Giardini botanici del ’67, studio cromatico in cui l’artista non nega un certo estetismo, e il brillio work in progress (dal 1967) di Anthology, un frasario-concentrato del Nannucci pensiero. La conferma che si «all art has been contemporary» come si legge (e Sgarbi ripete da tempo immemore), ma pure che l’artista può essere fuori tempo – invecchiando insieme alla propria arte – se non possiede una predisposizione alla contemporaneità. Oltre a Nannucci quanti altri ce l’hanno?

Andrea Rossetti

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