Quando l’artista fa il film. E lo fa bene

di - 3 Dicembre 2015
In un panorama non particolarmente ricco, Lo schermo dell’arte Film Festival è forse l’iniziativa più brillante che si registra oggi a Firenze. Un grande pubblico appassionato d’arte ha affollato l’ottava edizione del festival, dove i film e le discussioni in sala aprono in maniera efficace il dialogo su questa difficile materia anche ai non addetti ai lavori. Un pubblico interessato, curioso che partecipa divertito alle discussioni alla presenza di artisti, critici e curatori. Una comunità internazionale che continuerà a collaborare anche nei mesi futuri, perché i giorni del Festival sono solo la punta dell’iceberg di un progetto ben articolato, che da quest’anno prevede anche la produzione e distribuzione di un lungometraggio attraverso il progetto Feature Expanded, a cura di Leonardo Bigazzi e Sarah Perks che ha premiato il film di Gabrielle Brady Nessun uomo è un’isola. Film documentario che racconta la storia di un’isola, luogo di detenzione e area naturale protetta, affrontando il tema socio-politico in chiave metaforica e ponendo attenzione anche a problemi bio-etici.
Negli anni Lo schermo dell’arte Film Festival si è fatto apprezzare per la qualità della selezione dei film, frutto dell’impegno e della ricerca di Silvia Lucchesi. Con il preciso interesse di indagare il rapporto tra queste immagini e l’arte contemporanea, Lucchesi persegue scelte curatoriali che, evitando rassegne a tema e senza incorrere in preconcette scelte estetiche, seguono i percorsi intrapresi da artisti e autori di diverse generazioni. Traspare la predilezione per artisti che indagano le possibilità di sovvertire clichés narrativi e strutturali attraverso le tecnologie applicate alle immagini in movimento.

E a festival chiuso, mentre vanno avanti gli incontri in programma – oggi, 3 dicembre alle ore 18.30, alla Strozzina c’è il talk tra Silvia Lucchesi e Davide Giannella “Tra arte e cinema. Le “moving images” nella pratica artistica contemporanea” – vale la pena ripercorrerne i momenti salienti. Nella serata conclusiva di questa edizione, per esempio, è stato presentato Human Mask di Pierre Huyghe. In un’intervista apparsa più di dieci anni fa su “October”, l’artista francese spiega il suo ricorrere a differenti formati e modalità come una prassi alla ricerca di un rapporto originale col reale, scevro da stereotipi interpretativi. Tutti i media sono da lui considerati dei sistemi topologici, dei luoghi pubblici per la discussione dove ri-negoziare ogni tipo di convenzione epistemologica. Nel caso del cinema, la ri-negoziazione del reale è affidata al montaggio di sequenze che simultaneamente riprendono da più angolazioni la stessa scena, sovvertendo la narrazione del montaggio, cosicché la domanda insita in una inquadratura non trova risposta nell’inquadratura successiva.
Questi elementi sono presenti anche nelle immaginifiche sequenze di Human Mask. Huyghe ricerca, anche attraverso il cinema, l’accesso a un altro spazio e a un altro tempo. In questo caso lo scenario di partenza è un video trovato su Youtube, lo spazio pubblico per eccellenza di quell’intrattenimento che è da sempre un altro campo d’interesse dell’artista. Il movimento lento della camera in uno scenario post-Fukushima ci porta dalle strade di una città giapponese disabitata all’interno di un ristorante. Unica presenza, una piccola figura dai capelli castani lisci che si aggira caracollando. Da sotto il grembiulino spunta un corpo peloso, sul volto una maschera che ricorda quelle del teatro del Noh. La figura è ripresa mentre si muove velocemente nei locali del ristorante reiterando le stesse, ormai inutili, azioni. La piccola figura si siede, ozia, si accarezza i capelli, rivolge la maschera verso un raggio di sole che filtra dalle finestre. Una scimmia con una maschera, in latino persona.

La maschera/persona identificava la gens, definiva giuridicamente il cittadino romano. La maschera è l’individuo. Quella figura, che ora si pulisce le unghie della mano dal pollice opponibile, è una persona: ci viene mostrata la disperante solitudine. Il corpo dell’uomo è assente, non la sua esistenza. Quella figura, gira su se stessa, disorientata in un luogo in decomposizione le cui ombre scoperchiano un baratro etico davanti ai nostri occhi. Quelle immagini sono già, indelebilmente, impresse nella nostra memoria.
Memoria e storia delle immagini è anche il campo d’indagine di Parallel I-IV di Harun Farocki, a cui quest’anno era dedicato il “Focus on” del festival. Con un approccio ludico, come sottolineato dalla vedova e sua collaboratrice Antje Ehmann presente in sala insieme alla critica d’arte Erika Balsom, i quattro film ci raccontano il mondo animato dei computer games dalle prime immagini degli anni ’80 e ’90 costruite attraverso rigide figure geometriche fino alle recenti animazioni sempre più veridicamente elaborate attraverso complessi algoritmi. Un mondo euclideo creato con la stessa geometria della prospettiva rinascimentale. Un mondo perfetto e autoreferenziale, chiuso da limiti invisibili e invalicabili, dove il protagonista vive in un perenne presente. Un eroe senza storia e senza memoria, che contribuiamo a creare giocando, al quale è data ben poca libertà d’azione.
Balsom, ha ricordato come la voce narrante accenni più volte con ironia alla storia dell’arte e alla storia del cinema, con riferimenti alla teoria di Bazin che vedeva nelle nuove tecnologie la possibilità per liberare la pittura dall’obbligo della verosimiglianza. Per Farocki le immagini create al computer possono a loro volta affrancare il cinema dallo stesso obbligo. I video games, senza essere stigmatizzati, sono esaminati per valutarne la portata nella creazione dell’immaginario collettivo.

Il cinema è il protagonista anche dei lavori di Runa Islam presentati dall’artista in una conversazione con Riccardo Venturi dove è emerso ancora più chiaramente come l’artista inglese continui a sperimentare le possibilità di costruire una realtà a sé stante attraverso materia e dispositivi del cinematografo. La sua macchina da presa, spesso telecomandata attraverso un robot, mediando la nostra percezione del mondo, ne interroga e mette in discussione i limiti cognitivi. Islam si chiede quale sia il suo ruolo come artista nel definire con l’inquadratura spazi e oggetti. Il titolo del film Empty the Pond to Get the Fish cita una frase di Robert Bresson che definisce la cinepresa la penna del regista, lo strumento con cui rivelare l’oggetto.
Tra utopia e una certa dose di ironia, le carrellate e i movimenti meccanici della macchina, iscrivono lo spazio del Museo del Ventesimo Secolo di Vienna, rivelando ambienti e oggetti trovati dall’obiettivo come “ready made”. Tra elementi liquidi e altri ben definiti in contrasti e contorni la camera svela ancora una volta l’ambiguità e parzialità della nostra visione. Anche da questo punto di vista, Lo schermo dell’arte Film Festival di Silvia Lucchesi si è confermato un momento fondamentale per la comprensione e rilettura del rapporto, in continua evoluzione, tra arte contemporanea e moving images. L’estetica del documentario non è più la sola dominante, e se Runa Islam la rifugge, altri artisti la ristrutturano attraverso narrative oniriche o ibridazioni di linguaggi.
È quanto emerge anche dalla mostra “VISIO. Next Generations Moving Images”, visibile fino al 20 dicembre al CCC Strozzina e a cura di Leonardo Bigazzi. I lavori dei dodici artisti selezionati, sono dislocati negli spazi museali con scelte espositive originali che sollecitano il visitatore ad esplorare le differenti modalità e scelte estetiche di una nuova generazione di artisti che affidano alle immagini in movimento la loro poíesis e le loro riflessioni sul mondo.
Maria Antonia Rinaldi

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