E la seconda possibilità?
Proprio queste lunghe bandiere sono state il mio secondo spunto, l’elemento che ho sfruttato per dare colore all’architettura, distribuendo sulla cima diverse tonalità di colore che si avvicinasse a un colore nazionale del tutto inedito. L’insieme di queste due componenti, dunque, è stato poi risolto da alcuni interessanti dettagli che hanno sottolineato gli aspetti più tecnici di All’aperto, come il confezionamento del nuovo tessuto usato da supporto. Tessuto che, ancora una volta, rimanda alla produzione d’eccellenza portata avanti in quest’azienda e più precisamente in questo stabile.
In che senso questo progetto soddisfa l’intenzione di Daniel Buren di instaurare e intrattenere un dialogo con un’architettura? Potrebbe sembrare All’aperto un mascheramento di un territorio di un altro artista? Oppure è solo un nuovo, magnifico uso di “fare museo”? Come mai per te lavorare qui a Trivero è diventata una sorta di sfida?
Le due opere che abbiamo di fronte, il luogo e l’architettura su cui si può operare, formano un blocco che ha un grande influsso sui parametri riguardanti l’esterno, cioè sulla distanza e sulla proiezione delle bandiere percepita da lontano. Si può vedere la fila di bandiere che sventola a qualche metro dalla fabbrica come dalla cima della montagna. L’opera globale, anche se vista nel dettaglio, alla fine è Buren stesso. È il concetto originario che ricrea queste due componenti fuse e ne immagina una loro evoluzione, prevedendo anche una reazione da parte di chi le guarda e continuerà a guardarle anche dopo la realizzazione dell’atto artistico. Questo modus operandi ricorda la velocità con la quale agisce il colore nel nostro cervello: lo fa diventare un pensiero diretto, una conoscenza immediata e non più mediata. Dunque, in All’aperto il superamento abituale dell’arte, come la si è abituati a usufruire in genere, è il ritrovarsi e fare parte del lavoro artistico. Scoprendo persino che quest’ultimo riesce ad attirare e a trasformare il lavoro di chi ha permesso la sua attualizzazione.
Beh, non c’è una reale differenza tra pubblico e privato, questo almeno non dal punto di vista dell’artista. Sarebbe da inserire, per esempio, in questa risposta anche il rapporto che intercorre tra collezionisti privati e collezioni nate da risorse pubbliche, come quelle dei musei. Ma di questo non mi sono occupato quasi mai. Mi ha sempre attirato, invece, la strada. La strada come spazio artistico esterno che non fa distinzione di pubblico. La strada, infatti, non fa selezione, tutti possono vedere e percepire l’opera senza preparazione estetica, senza alcuna cultura artistica. Questa è una sfida. È sapere che l’abitudine all’opera d’arte, esposta in un luogo di grande affluenza, rende difficile la gestione costante dell’espressione artistica. E poi lo spazio è più grande. Nello spazio pubblico si mette in questione la libertà delle sensazioni e delle interpretazioni, annesse anche alle tendenze politiche.
E al museo?
Il museo a volte funge da laboratorio e il lavoro è più accurato,rispetto alla strada, ma il mettersi in questione e lasciare che il pubblico accetti un dialogo, beh, questo non è un problema di fruizione che si pone solo all’esterno. E lì non sempre tutto è accettato. Un altro spazio interessante è stato quello che mi sono ritagliato lavorando nei laboratori delle scuole. I bambini, questo è indubbio, vedono molto meglio degli adulti. È da loro che sono partito per stimolare e far emergere un proprio gusto artistico. Vorrei che un giorno fossero loro a cambiare la strada, facendola diventare un percorso nel quale inserire il concetto al di là dell’uso di informazione politica per la quale oggi viene sfruttata.
È stato detto che la tua arte è magnificente perché si avvicina a essere un cliché assoluto. Una certa verità rimane sempre nascosta dietro la tua scenografia. Cosa intendi per realtà?
C’è un rapporto nell’esistenza delle cose, un collegamento che lavora creando conflitti molto importanti. Qui, per esempio, ogni giorno, ogni ora c’è un rapporto tra fabbrica, produzione, qualità e persone che esprime e mette in gioco grandi presupposti. Ancestrali, direi. È per questo che diventa importante il rapporto con la gente del paese. La storia del luogo va quasi a combaciare e a confluire con quella degli edifici, diventando un richiamo che deve necessariamente rendersi visibile come un pezzo di realtà a parte. Un simbolo. E il presente, la situazione di oggi, è qualcosa di molto interessante per questa zona, diventa un modo per estenderla e per far esistere un suo pubblico, al di fuori di essa. Solo quando capisco che questi potrebbero essere buoni punti di partenza, uniti da un buon bilanciamento, allora posso far sì che un mio lavoro diventi visibile per il pubblico e per l’ambiente nel quale si manifesterà. Amo sempre che tra la realtà e la non-realtà esista un medium che non appartiene solo alle persone, ma a tutti. L’opera pubblica va creata e poi acquistata solo per far sì che venga restituita alla collettività, al di là delle speculazioni e delle necessarie, quanto mai istruttive critiche.
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