Foto aerea di Tullio Iaria
Tappeto Nomade è l’ultimo progetto dei Guerrilla Spam a cura di BASE Milano e Bepart con il contributo e patrocinio del Comune di Milano e con la collaborazione di Codici Ricerca e Intervento, Cooperativa sociale Comunità del Giambellino. Abbiamo chiesto a Guerrilla Spam, attualmente tra i più rilevanti collettivi di arte urbana, di parlarci del progetto.
Come e quando è nata l’idea di Tappeto nomade?
«Lavoriamo spesso sul tema delle contaminazioni tra culture e il tappeto è da sempre un facile trasportatore d’immagini. Decori di capitelli mesopotamici si ritrovano identici in chiese romaniche tedesche o francesi, arrivati tramite riproduzioni su tappeti che hanno attraversato terre e mari. In questo senso il tappeto è un oggetto di trasmissione che mette in contato popoli lontani mescolandone le culture. Ci interessava poi la natura nomade del tappeto, nato e sviluppato tra le popolazioni che cambiano insediamento di frequente e, con esso, il “suolo” delle proprie case. Seguendo tali spunti abbiamo realizzato questa pittura, con un gruppo di ragazzi del Giambellino, che concepiamo come un’opera pubblica pavimentale con funzione estetica e pratica (proprio come un tappeto). È un’opera che decora uno spazio ma che deve anche essere usata: va osservata, percorsa, calpestata, occupata con il proprio corpo».
Guerrila Spam lavora da tempo con comunità per richiedenti asilo, migranti, profughi e carcerati. Quanto è importante il concetto di arte pubblica e arte sociale, nel 2020?
«Un’arte pensata per la collettività è veramente decisiva per la salute di una società. Questo non significa che sia più rilevante o “necessaria” di un’arte individuale destinata al singolo che, sarebbe bello, ognuno coltivasse privatamente per il suo benessere. Tuttavia l’arte come pratica pubblica resta una grande opportunità: murales, sculture, installazioni, possono veramente cambiare un tessuto urbano se realizzati con responsabilità studiando un territorio (e non per fare lo spot elettorale all’assessore di turno o una finta “riqualificazione”).
Noi aspiriamo ad un muralismo più vicino a quello messicano degli anni ’20, per intenti e metodo comunicativo, che all’odierna street art. Non ci interessa fare decorazioni tappabuchi per muri grigi e neppure dipingere slogan politici banalotti. Perché, va detto, la gente vuole esattamente questo: il disegno bello e colorato oppure il disegno ribelle contro il sistema, non accorgendosi che in entrambi i casi il risultato è alquanto misero. Ma un’arte pubblica differente è possibile: più partecipata, più valida per contenuti ed estetica, più politica, magari anche nel suo essere astratta, dato che oggi il figurativo è diventato innocuo più della decorazione».
Si sente spesso parlare di contrapposizione tra il mondo del writing e quello della street art, voi cosa ne pensate?
«Molti artisti che oggi vengono chiamati “street artist” e dipingono grandi murales un tempo facevano graffiti; alcuni continuano a farlo senza nessuna contraddizione. Nel nostro caso, pur non essendo legati al writing, manteniamo da anni la pratica dell’affissione non autorizzata, più spontanea e libera, in parallelo agli interventi di muralismo pubblico di grande dimensione, più studiati e riflessivi. Le “espressioni” nello spazio pubblico sono un fatto complesso: è facile demonizzare la tag che deturpa e promuovere il murales colorato che decora (binomio semplicistico abusato dalle amministrazioni o dalle associazioni che si proclamano paladine del decoro; vedi gli “Angeli del Bello” di Firenze, per citare la più comica). La questione è all’opposto complessa e variegata: in linea generale non esiste contrapposizione tra writing e street art ma contaminazioni tra i due ambiti e certamente motivazioni differenti.
Esistono writer ottusi che snobbano la street art in toto ma anche writer oggettivi che criticano street artist improvvisati e incapaci; dall’altro lato stessa cosa. Tirando le somme questo calderone di pratiche urbane ci insegna che possiamo usare lo spazio pubblico. Si può fare per un’esigenza personale, per scrivere il proprio nome, oppure per dire qualcosa agli altri, ma è una cosa che tutti possiamo fare».
Nasce nel novembre 2010 a Firenze come spontanea azione non autorizzata di attacchinaggio negli spazi urbani, senza un nome e un intento definito. Oggi alterna la pratica di affissione non autorizzata agli interventi di muralismo pubblico in Italia e all’estero.
Lavora quotidianamente nelle scuole, comunità minorili, centri di accoglienza e carceri; i progetti didattici si concentrano sul tema delle migrazioni e sull’incontro “dell’altro”, attraverso laboratori meticci con italiani e stranieri volti a conoscere differenti culture. Ha esposto in Italia in musei archeologici nazionali e musei d’arte moderna e contemporanea.
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