Un film di nove ore più infinite altre

di - 10 Giugno 2018
Evoca sempre una particolare meraviglia, evidentemente per una questione di discordanza tra i sensi, vedere tante persone concentrate in uno spazio circoscritto ma non sentire alcun rumore. A prescindere dalle retoriche sinestetiche, cosa staranno facendo trentasei persone, raccolte nell’ampia Sala Re_Pubblica del Museo Madre, che siamo abituati a vedere luminosissima ma che, adesso, è immersa nell’oscurità e nel silenzio? Su un palco al centro della sala, comodamente seduti su poltroncine girevoli, osservano un grande schermo a parete, tenendo sotto controllo, con la coda dell’occhio, gli altri due schermi posti su altrettante pareti, magari voltandosi quel tanto che basta per recepire qualche segnale visivo dalla quarta e ultima proiezione, scegliendo in tempo reale anche il segnale audio inviato alle cuffie, in un singolare processo di montaggio organico, immediato e strettamente individuale. Insomma, fruendone, sono anche partecipi della creazione di “1977 2018. Mario Martone Museo Madre”, la prima retrospettiva dedicata al regista napoletano, a cura di Gianluca Riccio, che ripercorre i quarant’anni di un itinerario artistico stratificato tra azioni performative e narrative, tra storie e azioni di cinema, teatro e opera lirica. Sarebbe stato un lungo percorso, dalle avanguardie della fine dei ’70 ai densissimi ’80 fino a oggi e oltre, dagli anni delle sperimentazioni di Falso Movimento, da titoli come Tango Glaciale (1982), Il desiderio preso per la coda da Picasso (1985), Ritorno ad Alphaville (1986), Morte di un matematico napoletano (1992), L’amore molesto (1995), Edipo Re (2000), Edipo a Colono (2004), Il giovane favoloso (2014), fino a Capri Batterie, di prossima uscita, a ottobre 2018, attraverso volti, voci, opere e gesti di Toni Servillo, Antonio Neiwiller, Enzo Moscato, Anna Bonaiuto, Elio Germano, Fabrizia Ramondino, Leo De Berardinis, Carlo Cecchi, Steve Lacy, Lucio Amelio, Mimmo Paladino e tantissimi altri, tutti protagonisti.
Morte di un matematico napoletano, 1992, foto di scena di Cesare Accetta
La scelta più ovvia, dunque, sarebbe stata quella di un archivio da misurare con i propri passi e, invece, il sapiente colpo di scena. «Non chiamatela retrospettiva. Più che una mostra è un’opera totale, un percorso aperto e libero che si sviluppa in un tempo non lineare ma tortuoso, per riallacciare nuovi nodi, scoprire nuove assonanze», ci ha detto Riccio. Quattro film-flussi di nove ore, che si sviluppano, quindi, coprendo l’intero arco quotidiano di apertura del museo, non proprio dall’alba al tramonto ma quasi. Sui quattro grandi schermi che delimitano la sala, si svolgono lunghissimi o brevissimi brani tratti dai film, dai documentari, dalle pièce, dalle interviste, scene tagliate, stralci inediti, un materiale magmatico che sovrappone suoni e visioni, le strade di una Napoli, selvaggia metropoli, e gli ordinati palchi dei teatri. Il jazz, il bebop e la lirica, gli assoli dei soprani, del sax, le voci fuori campo, i recitativi, i dialoghi, la mitologia e la cronaca, la tragedia e la commedia. «Ero consapevole di aver realizzato opere molto diverse tra loro e con questa operazione ho potuto notare come ogni volta io sia ripartito da una tabula rasa. Ogni volta ho rimesso tutto in gioco, forse disorientando, ma posso dire che, in fondo, c’è del metodo in questa follia, in questo processo», ha commentato Martone.
Don Giovanni 2002 Napoli Teatro San Carlo, foto di Luciano Romano
Il montaggio, a cura di Natalie Cristiani, alterna con sicurezza il ritmo, tra derive, contrapposizioni e assonanze, tra rima baciata e metrica libera, giocando su più livelli di interpretazione. Nove ore è un tempo da maratoneti ma sembra difficile stancarsi e comunque è lo spettatore a decidere quando prendere fiato e tagliare, il che è un lavoro agile, compiuto semplicemente girando la seduta, scegliendo quando voltare lo sguardo e sintonizzando il giusto canale audio. Oppure no, sovrapponendo ciò che si sente e ciò che si vede, ricreando situazioni che, immaginiamo, potrebbero anche dare vita a scenette esilaranti oppure drammatiche, sicuramente esclusive e difficilmente ripetibili, per una centralità degli sguardi moltiplicati che è, poi, elemento costante nella ricerca di Martone. «Mi sento fortunata ad aprire il mio mandato con questa mostra, anche perché mi sembra coerente con il mio percorso nell’ambito performativo», ha detto Laura Valente, presidente della Fondazione Donnaregina. Sicuramente il periodo è quello giusto, in un momento in cui il cinema italiano tenta di risalire la china e innovare il proprio linguaggio, dal successo di Matteo Garrone a Cannes alla controversa saga di Paolo Sorrentino. Perché poi il Madre, negli ultimi anni, ha spesso provato a essere «Non solo un luogo dell’evento ma anche della riflessione e della restituzione del contemporaneo», ha commentato Andrea Viliani, direttore del museo di via Settembrini. E così, raggiunto l’arcipelago Martone, Valente guarda oltre, annunciando ufficialmente l’Archivio del contemporaneo, un progetto che, in forme e da voci diverse, già da qualche anno risuona negli ambienti napoletani, annoverando anche alcuni tentativi concreti e poi arenati (vedi il PAN). «La Regione crede nel Madre, crede nella cultura e non farà mancare il suo supporto», ha assicurato Valente. Che si sia chiuso un ciclo è evidente, tuttavia sembrano esserci tutti i presupposti per prospettive nuove e di qualità.
Mario Francesco Simeone

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