Uno sciamano di nome Pino Pascali

di - 10 Aprile 2017
Nel 1968 il critico Filiberto Menna affermò che gli artisti del movimento dell’Arte Povera, tra cui Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto e Jannis Kounellis cercavano un “altrove alla natura, alla manualità e all’organico”. Queste e altre investigazioni che all’interno della dialettica tra il naturale e l’artificiale, i materiali desueti prelevati dal reale si fanno portatori dell’energia vitale e subiscono un processo di semplificazione, di riduzione ai minimi termini per ridurli in archetipi. In questa chiave di lettura, i materiali diventano strumenti di conoscenza, relazione e dialogo e includono una pluralità di contenuti semantici dando come esito a soluzioni formali contro il mercato dell’arte, all’insegna di una libertà espressiva totale e destabilizzante.
Pino Pascali (1935-1968), bello come un dio greco, seduttore, motociclista, sub, pubblicitario, illustratore, regista, scenografo, performer, artista polimorfico impossibile da etichettare e non riconducibile soltanto all’Arte Povera (dal 1967), è uno “sciamano” affascinato dall’immaginario naturalistico, dall’ardore dell’individuo di creare qualcosa di nuovo. Pascali e l’Africa hanno in comune una visione magica del mondo, esiti formali essenziali, i materiali poveri in contrapposizione alla società industriale e come si intreccia la cultura tribale con la ricerca dell’artista barese, lo si comprende nell’ambito della raffinata e imperdibile mostra a cura Francesco Stocchi  alla Fondazione Carriero a Milano, dove il curatore evidenzia, attraverso analogie, differenze e similitudini tra arte tribale africana e un corpus di 20 opere scelte di Pascali (scomparso tragicamente a soli 33 anni in seguito a un incidente in moto), una visione animistica  dell’oggetto e una dimensione “magica primaria”  sottesa dall’energia ancestrale, ambigua, inedita e seducente, supportata da un percorso espositivo ideato ad hoc in relazione all’architettura. “Pascali Sciamano”  (fino al 24 giugno) è il titolo d’immediato appeal di questa mostra dinamica e trasversale basata su parallelismi, intrecci narrativi tra le opere dell’artista e la cultura africana e le forme totemiche semplificate in bilico tra ironia, gioco, mito e fiaba, elementi emersi in una intervista dell’artista rilasciata a Carla Lonzi (1967).

Alla Fondazione Carriero, l’Africa non viene sublimata, bensì ripresentata sotto un’altra luce, come critica all’intellettualismo dominante tra gli anni Sessanta e Settanta e un presupposto immaginifico, in contrapposizione ai miti della società moderna. Il percorso espositivo non mette a confronto diretto 80 manufatti tribali con le opere di Pascali, questi sono raccolti in sezioni separate e suggeriscono relazioni, trame narrative, simbologie e nuovi immaginari da esplorare visitando la mostra.
La mostra inscena una “narrazione fantastica” su tre piani di Casa Parravicini, tra i pochi edifici privati del Quattrocento, adiacente a Palazzo Visconti di Modrone e la casa natale di Giovanni Berchet, nel cuore di San Babila a Milano, dove la produzione artistica di Pascali tra il 1966 e il 1968, compreso Pellicano, mai esposto al pubblico, e le chicche: Il Serpente e Cigno e Piccolo Cigno viste raramente provenienti da collezioni private.
L’arte tribale sta a Pascali sciamano, come Picasso sta all’arte primitiva “Negra” e Brancusi all’essenzialità formale: lo attrae l’elemento magico, una dimensione non razionale, esiti formali totemici così diversi dai feticci industriali della società dei consumi, come un presupposto di conoscenza, immaginazione e relazione tra le forze naturali e le facoltà cognitive, in cui l’artista diventa intermediario tra il mondo terreno e l’ultraterreno. Nelle società primitive lo sciamano si esprime attraverso un simbolismo mitico e riconosce la vita ovunque, al di fuori dell’uomo, e in questo principio di attività vitale, Pascali trova l’energia rigenerante di una poetica che trasforma la materia, i comportamenti e le azioni in un linguaggio metaforico, invitando lo spettatore a immaginare nuove narrazioni suggerite da manufatti tribali e alcune delle sue opere più significative, quasi complementari le une alle altre, più magiche e misteriose.

Il viaggio ai confini della ragione, oltre le barriere culturali, incomincia al piano terra con grandi fotografie di Pascali, nel ruolo ironico di stregone sciamano dallo sguardo ipnotico e suadente e prosegue nella prima sala con un campionario di sette figure funerarie, provenienti dall’Etiopia del XX secolo. Nella seconda salaci sala ci sono adagiati in una grande bacheca il Taccuino e Disegni del 1967. Si entra nello zoo immaginario di Pascali nella terza con le opere Scoglio, Bucranio, Il Serpente, Pellicano, Bambù del 1966, e Cigno Piccolo, Cigno grande del 1968. Si alternano al primo piano sale con maschere africane in legno di particolare pregio sono quelle Dogon, Dan, Bamana, Adamawa  e Makonde, Moba e altre che avrebbero affascinato Picasso insieme ad altri feticci tribali del XIX-XX secolo di collezionisti privati. Questi e altri oggetti che a confronto con le opere che Pascali definiva “finte sculture” annullano la distanza cronologica tra passato e presente, stabilendo un continuum suggestivo tra arte africana e quella contemporanea occidentale, dove la semplificazione formale africana sottende, malgrado le intrinseche differenze, elementi cognitivi e intellettuali insiti nell’arte contemporanea. Sintesi formale e del pensiero qui s’incontrano in una dimensione simbolica e non naturalistica, con l’obiettivo di recuperare anche una dimensione artigianale contro l’eccesso di industrializzazione e urbanizzazione crescente dalla fine degli anni sessanta al nuovo millennio.

Le sesta sala al primo piano è un capolavoro, dove l’allestimento interpreta lo spazio con grandi sculture: Pelle conciata, Contropelo, Liane, Senza Titolo, Baco da Setola e Cesto, del 1968, che insieme inscenano una sorta di teatro dell’assurdo dove il primitivo, un certo non so che di “rusticità” misto a senso del gioco  indefinibile sono una testimonianza della volontà di Pascali di recuperare una dimensione rurale, come andava affermando Pasolini in quegli anni, quando l’uomo rompe la relazione con la natura e si assiste alla perdita delle origini essenzialmente rurali della cultura italiana. In questa sala avrebbero ulteriormente rimarcato  gli imperativi  artigianali primari dell’artista e dell’Arte Povera, le sculture del 1968 Attrezzi  agricoli, Cavalletto e L’arco di Ulisse, come emblemi per eccellenza di un viaggio immaginario a ritroso nel tempo alla ricerca delle fonti della civiltà umana, verso quel bambino che siamo stati, senza retorica o nostalgia ma come pratica di conoscenza e visionarietà necessaria per narrare nuove storie, mondi e modi di espressione della creatività umana, così lontani e così vicini.
Jacqueline Ceresoli

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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