Quello che interessa veramente a Marco Delogu (Roma, 1960) non è tanto l’identità del singolo, che ha comunque un nome e un cognome -non c’è giudizio, o meglio, pregiudizio nei suoi scatti- quanto, piuttosto, il legame che unisce persone diverse nel vivere un’esperienza comune. Un forte coinvolgimento che è prima di tutto emotivo. Ecco allora che lo scenario in cui questi volti/corpi si muovono è del tutto asettico, perché indifferente è la loro collocazione spazio-temporale.
L’Italianità che Delogu racconta in questa mostra è una sorta di compendio di tutti i suoi lavori. Ventiquattro scatti stampati in grande formato, di cui quattro a colori (due sono i ritratti delle carcerate Barbara Ferrandu e Antonietta Pistola). C’è qualche immagine dei carcerati di Rebibbia (sono state realizzate in due tempi diversi, gli uomini nel 1998 e le donne nel 2002/2003), ci sono i contadini veneti che hanno bonificato l’agro pontino (1994), i cardinali (2000), i cacciatori di cinghiali e i pastori sardi emigrati in Maremma (2005), gli operai dei mercati generali e delle officine dei tram (2003), i fantini del palio di Siena (1998), una famiglia rom (1999).
Tutto parte, però, dalle fotografie dei volti di due statue romane del 1988, Salonina e Alessandro Severo. “Il lavoro sulle statue romane nasce da una mia specie di ossessione visiva”, spiega Delogu, “infatti mi capita spesso quando sono sul tram o in metropolitana, o camminando in giro per Roma di soffermarmi a guardare la gente e di ritrovare nei loro volti quelli degli antichi romani, la faccia di Adriano, di Tiberio o di Settimio Severo…”.
Molti dei lavori del fotografo che è stato l’ideatore, cinque anni fa, di FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma, di cui è attualmente il direttore artistico, nascono da un suo vissuto personale: “Il lavoro sui cavalli e sui fantini del Palio di Siena riunisce sia la mia origine sarda, sia la
Per ogni volto un nome, una storia. Che sia dei fratelli Michele e Luciano Ardu, di Nazzareno Zambotti, di Anna Furlan, di Sebastiano Deledda detto Legno, della giovane Senada che allatta il suo bimbo. Un solo volto è identificato dalle iniziali: “S.G. sembrava un attore. Mi ricordava Burt Reynolds nel film ‘Quella sporca dozzina’. Stranamente proprio lui, che girava sempre per il carcere con felpe su cui era scritto il suo nome e cognome, è stato l’unico a non volere che fosse indicata la sua identità, se non con le iniziali.”
manuela de leonardis
mostra visitata il 14 febbraio 2006
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