La Galleria Oredaria è diventata il punto di riferimento romano per
Gilad Efrat (Beer-Sheva, 1963; vive a New York e Tel Aviv), che qui presentò, quattro anni fa, la personale
No man’s land. Ora torna sul tema dei luoghi, ma non intesi come paesaggi dell’anima, bensì come spazi astratti, che potrebbero essere ovunque.
Common Places, come recita il titolo della mostra.
Le linee morbide degli ambienti di Oredaria accolgono come nicchie le opere di Efrat, organizzate secondo tre unità narrative e culminanti nella prigione di Ansaar, dove sono reclusi i fondamentalisti dell’omonimo movimento jihadista (
Ansaar VII, 2007), unico luogo certo esistente eppure quasi inconsistente, galleggiante in uno spazio monocromatico. Il massimo del silenzio, lungamente cercato in un Medio Oriente invaso dal fragore delle bombe. Ma l’artista israeliano non offre il proprio punto di vista sulla “questione terrorismo”; la sua urgenza è ben altra.
Il colore è il vero protagonista dell’azione di Efrat che, come
Michelangelo in scultura, esfolia la tela precedentemente dipinta, quasi a voler dare nuova vita e valore agli strati sottostanti o, come scrive Laura Cherubini, “
ridare un presente al passato”, utilizzando la metafora fotografica del negativo, che permette di risalire all’originale.
Ciò che colpisce, soprattutto nella serie dedicata alle scimmie, dipinte in primissimo piano (
Looking IV-VIII, 2008), è l’incredibile effetto di frottage che surrealisti come
Max Ernst ottenevano per contatto con superfici scabre e che Efrat ottiene solo con i colori. Rossi in tutte le gradazioni, fino al rosa della pelle umana, per i deserti (
Stones and sand IV-VI, 2008), grigi sfumati per i paesaggi lunari (
Untitled II-III, 2006). In tutte le opere si ritrova questa sovrapposizione di pennellate che, attraverso un vero e proprio “scavo”, subiscono il proprio disvelamento, mettendo a nudo i mezzi del “fare il quadro”, tocco dopo tocco.
Tutti questi paesaggi – “
in cui il soggetto è assente, non c’è traccia di storia, di contenuto, solo un pezzo di terreno, una superficie semplice. Senza nome o identità, sono luoghi di astinenza, di contemplazione, luoghi di una possibili intimità” – sprofondano nel buco nero dell’intimismo. In questa prospettiva, la serie delle scimmie dall’aspetto straniante assume un valore diverso, quasi più connotativo e personale rispetto alle lande desolate che, verrebbe da dire, hanno un po’ lo stesso scopo dell’abbaino da cui l’artista, lui che sa vedere, guarda dall’alto la città.
Tuttavia, a restare è l’impressione della vera necessità della pittura in anni in cui, citando Arthur C. Danto, “
l’arte può fare tutto quello che vuole”.