Prima ancora della Pop Art fu l’Art Nouveu a manifestare la propensione ad un’idea dell’opera d’arte concorde alla produzione industriale. Galileo Chini (Firenze, 1873-1956) è indubbiamente il pittore liberty per eccellenza, sostenitore di quell’abbattimento tra arti maggiori e minori che sarà poi vessillo di molti dei pamphlet che animeranno il corso del Novecento.
La galleria di Francesca Antonacci, memore dell’esperienza dello scorso anno alla Galleria d’Arte Moderna, che allo stesso Chini dedicò un’ampia retrospettiva, vuole definitivamente rompere con gli schemi interpretativi che collocano l’artista fiorentino esclusivamente nell’aut aut del simbolismo, del liberty, della corrente secessionista viennese, per cogliere invece tutta la portata eclettica del suo operato.
Questa collezione di poche opere, tra le quali emergono anche alcuni dei bozzetti preparatori o decorazioni appositamente creati per spazi e luoghi pubblici, bastano per cogliere una piccola tranche di una biografia d’artista, di una formazione umana complementare alle sue esperienze di viaggio e di vita. Se la galleria, sviluppata verticalmente, con soffitti alti e interni che sembrano comunicare una rotondità degli spazi, ben si presta ad accogliere le atmosfere avvolgenti ed emozionali di Chini, lo si deve anche alla centralità che assume, in questo piccolo percorso, il periodo siamese del pittore (1911-1914) quando, alla corte del re del Siam Rama VI, gli verranno commissionati gli affreschi per la Sala Del Trono.
Nella Danzatrice Siamese si palesano le atmosfere esotiche omaggio a Paul Gauguin e ai colori di Pierre Bonnard; in Mesù l’attrice sono le influenze klimtiane ad essere evidenti nella stessa tripartizione della superficie attraverso bande dorate. Nei diversi paesaggi (La mia veranda a Bangkok) si coglie il sintomo impressionista sebbene ormai permeato da un valore psicologico, emozionale che sembra presagire un’animosità espressionista.
Tuttavia Chini si adopera per un lirismo silenzioso: siano riprese di interni o di esterni, i soggetti e gli sfondi appaiono tutti in una dimensione da sogno. Filtrati dallo sguardo del pittore, suggestionato dalle atmosfere surreali di corte, o dalla sua memoria, a distanza di anni dall’esperienza siamese, i corpi e i paesaggi rappresentati comunicano una sinestesia dei sensi. Oltre che visiva, anche tattile -nella materia preziosa delle vesti reali (Studio per la giacca del re del Siam, 1911)- e olfattiva, nell’odore evocato dalle fronde piangenti del Canale sul Me-Nam.
La galleria propone una felice disposizione confusionale, scegliendo il cavalletto quanto la parete per l’esposizione delle opere e provocando un inevitabile accostamento ideale alla pienezza visiva dei palazzi reali, in cui i tesori e preziosità ricoprono corpi e ambienti. Dall’afflato religioso che spicca in alcune delle opere decorative poste all’entrata (La Primavera, 1914), passando per l’esotismo di Siam sino al sodalizio con Puccini, qui presente nelle quattro scenografie corrispondenti ai quattro atti della Turandot (1924), l’ultimo sguardo cade su un’opera del 1946, Orfeo. Dove si manifestano con forza gli eventi storici del tempo attraverso un incupimento dei colori e dei temi tra i quali affiora ormai anche quello della morte.
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