Studiare materiali e processi nuovi per costruire un mondo cibernetico, in cui la presenza di umanoidi è solo ipotizzata.
Eleanor & James Avery (Leicestershire, 1967; St. Albans, 1955. Vivono a Brisbane) collaborano dal 2005 e con una serie di progetti – a cominciare da
Our Day Out city limits per finire con
Feeder allo Studio Trisorio di Roma – danno vita a un mondo contemporaneo parallelo, fatto di architetture e stereotipi materiali che amplificano le condizioni della società mediatica e il suo insinuarsi nella vita comune.
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Le molteplici e instabili manifestazioni del ‘paesaggio’ contemporaneo formano un sito fertile per la critica della percezione e della realtà nel lavoro di Eleanor & James Avery”, scrive Clare Lewis parlando del loro primo lavoro insieme. Ed è proprio facendo riferimento a questo scritto che si può entrare nell’ottica di
Feeder.
L’installazione site specific dei due artisti è una rifrazione in legno rivestito della cultura mediatica contemporanea. Un grosso diamante ricoperto di laminato specchiante ingombra lo spazio della galleria, posizionandosi quasi al centro della sala. La sua qualità riflettente non è sfruttabile al massimo delle sue potenzialità; lascia dunque intravedere la parte distorta di chi si pone davanti a esso. La pancia del diamante è aperta, regolarmente e geometricamente tagliata al suo interno per lasciar posto a monitor molto piccoli che sbucano da un lato, su un tavolino, anch’essi specchianti: tanti piccoli occhi spenti che raccontano il reality show della società.
Come se provenisse dallo spazio, lasciandosi dietro anni luce di galassie, la scultura conserva una brillantezza opaca che la isola dal contesto di cui si circonda, nonostante intorno a essa gravitino una serie di altre sculture di piccolo formato che sostano sulle pareti immobili, disegnando solidi geometrici dalle vaghe somiglianze di
Fontana Amstrada (2009) o
Forum (sorella), esposta all’Accademia di Romania lo scorso anno.
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In Feeder si fanno molti riferimenti ma nessuno è fisso. Il titolo dell’opera è ambiguo in quanto allude a struttura fisica e sociale, azione e controllo. L’opera stessa è la messa in scena di un ambiente che si rifà all’iconografia della fantascienza retrò”, affermano gli Avery. Il termine ‘feeder’ in inglese vuol dire letteralmente “alimentatore”, “raccordo”, e se si guarda con attenzione alla grande scultura in legno, ai monitor sottostanti e alle piccole opere sulla parete, ognuna di loro pone un punto di raccordo riflettente con l’altra, smascherando quelle superfici altrimenti invisibili all’occhio e ora scrutabili grazie al riflesso.
Il fruitore si trova così di fronte alla riproduzione cibernetica di un mondo iper-reale, a sua volta riflesso di se stesso perché immobile e incapace di ruotare per esser visto. Un assunto irreale, eppure ciò che si osserva è nuovamente la messa in scena di un “grande fratello” elevato al rango di opera d’arte.
D’altronde, parliamo con il linguaggio che la società ci ha insegnato nel decorrere del tempo. E se il
Disoflex di
Giuliano Lombardo spiava il mondo al di fuori per proiettarlo all’interno di un monitor, per gli Avery è esattamente l’opposto. Il punto d’arrivo resta però unico: sia in “entrata” che in “uscita”, ognuno di noi sarà circondato dagli occhi elettronici di un mondo costruito da sé, sterminante esecutore del progresso sociale.