Nel rispondere nel 1998 ad una domanda di Giancarlo Politi sul ruolo dell’artista e l’importanza della qualità, Bendini rivelava che la sua esperienza di pittore era mossa da una mano “che prende il sopravvento e porta sulla tela i miei stadi orfici, coordinandoli in segni materici. È un felice accidente che mi conduce ad una insperata destinazione”. E poi concludeva rilevando che “se l’arte sopravvivrà, sopravvivrà in spazi ristretti per rari privati”.
La mostra in corso a Roma è ottima conferma sia della prima che della seconda affermazione. Quanto allo spazio fisico di sopravvivenza, quelli espositivi risultano ideali per lasciare in parte respirare le opere nella rarefazione dell’ambiente immacolato al piano superiore, in parte trattenere il fiato e affannare nell’allestimento approntato in un sottosuolo cupo e scabro, dove pochi lavori sapientemente illuminati si accendono nell’oscurità. Quanto ai quadri, si tratta dell’ultimissima produzione di questo maestro riconosciuto della stagione storica dell’informale italiano, ancora in grado a quasi ottantacinque anni (Bendini è nato a Bologna nel 1922, attualmente vive tra Parma e Roma) di dare prova di estrema vitalità e padronanza delle profondità che il colore può portare in superficie sulla tela.
Fedele ad un lungo dialogo con gli stati minimi della materia –prova somma ne fu, andando a ritroso nella sua lunghissima carriera fino agli
Universi risolutamente personali, retti da equilibri instabili di segni mai gridati ma piuttosto fatti cautamente affiorare, i quadri di Bendini ora esposti si affermano in virtù di una qualità (tanto per chiudere con un ritorno al discorso iniziale) innegabile, lontana dalle accademie dell’astratto perché genuinamente aderente all’umanità dell’artista, che dà immagine con accorta materialità alle proprie meditazioni sul trascendente. L’insperata destinazione di cui lo stesso Bendini parlava, è forse proprio questo poter ora aggiungere con mano ferma un’ultima carta al castello, che resta perfettamente in equilibrio.
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