Categorie: rubrica curatori

Ritratto del curatore da giovane

di - 3 Giugno 2013
Simone, di dove sei?
«Sono nato in provincia di Verona. Ho quarantadue anni. Vivo a Milano.»
Soffermiamoci sulle tue origini veronesi. Trovi che questa realtà cittadina sia ricettiva nei confronti del contemporaneo? C’è attenzione ed interesse per l’arte contemporanea?
«Verona è indifferente, se non apertamente ostile, all’arte contemporanea, e alla cultura contemporanea in generale. Lo è a livello della maggioranza del pubblico, che per mancanza di stimoli poco a poco ha perso l’abitudine di confrontarsi con le novità culturali del suo tempo. E lo è soprattutto a livello politico: ho sentito con i miei orecchi il precedente assessore alla cultura affermare che l’arte contemporanea è costosa, elitaria e inutile, e non merita sovvenzioni pubbliche. Di conseguenza, quel poco di arte contemporanea che c’è a Verona, è quasi interamente frutto dell’iniziativa privata. Parlo delle gallerie (in una delle quali ho lavorato per qualche tempo a metà degli anni Novanta, mentre scrivevo la tesi di laurea) e di una realtà autogestita, e in larga parte sostenuta dal volontariato, come l’associazione culturale Interzona, che alcuni anni fa mi propose di curare qualcosa nei loro spazi. Così organizzai una rassegna di video di artisti italiani delle ultime generazioni che si chiamava “Una certa idea dell’Italia”. La facemmo per due anni, nel 2008 e 2009. Tolta questa eccezione, da un punto di vista professionale io e la mia città d’origine ci ignoriamo reciprocamente».
Nella tua carriera l’attività giornalistica ha avuto un ruolo importante e continua ad averla tuttora: sei stato redattore della rivista “Tema Celeste”, de “Il Giornale dell’Arte”, free-lance per “Il Corriere della Sera” e oggi scrivi per diverse riviste d’arte, tra le quali Mousse. Dal 2004 svolgi anche l’attività di critico e curatore. Di fatto oggi le due professioni procedono in parallelo… Tuttavia, in quale di queste due ti identifichi di più? Quale senti più nelle tue corde?
«In verità, dopo aver chiuso la mia rubrica su Kaleidoscope (“Pioneers”, 2009-12), sto scrivendo molto poco per la stampa periodica. Del resto, non ho alcuna facilità di scrittura. Può sembrare strano, per uno che ha scritto con regolarità per circa quindici anni, ma è così. Non sono mai riuscito a farci davvero l’abitudine. Al momento, la mia formula di scrittura preferita è quella che accompagna e sostiene l’attività di curatore: i testi critici con cui presento le mie mostre, o quelli dedicati al lavoro degli artisti che espongo. In questo modo, scrittura e curatela non sono attività antagoniste, ma procedono di pari passo, ed è difficile dire in quale mi identifico di più».

Come mai hai deciso di dedicarti prevalentemente all’attività curatoriale? Per una volta ti prego di considerare anche l’aspetto economico…
«L’aspetto economico è importante: sappiamo tutti che un testo critico, indipendentemente dalla quantità di lavoro e ricerca che comporta, nel nostro Paese non è pagato più di qualche centinaio di euro (salvo lodevoli eccezioni, va da sé) mentre con una mostra se ne può guadagnare qualche migliaio. Ma sono sincero se dico che il primo, fondamentale impulso a curare mostre non proveniva da un calcolo economico. Semplicemente, non ne potevo più dei limiti del mestiere di giornalista. Ero sempre più frustrato da una professione che mi imponeva di scrivere di mostre di cui spesso non mi importava granché, e di farlo con un taglio che non concedeva molto spazio all’approfondimento. Così, ho provato a passare dall’altra parte della barricata. Mi è piaciuto, e non ho più smesso».
Che peso ha la tua esperienza in campo giornalistico nel lavoro di curatore? Quanto ti è utile?
«In generale, scrivere per la stampa periodica mi ha aiutato a rendere la mia scrittura più sciolta e accattivante; in particolare, scrivere per quella generalista mi ha obbligato ad essere chiaro e a evitare i cliché del curatorese. E, dato che cercavo (e cerco) di documentarmi su ciò di cui scrivo, il giornalismo mi ha anche dato l’opportunità di approfondire il lavoro di un gran numero di artisti degli ultimi decenni, in particolare figure meno note degli anni Sessanta e Settanta, di cui mi sono occupato con regolarità nelle mie rubriche su Mousse e Kaleidoscope.»

A cosa ti stai dedicando al momento?

«A diversi progetti. Li elenco in ordine di realizzazione. Ho appena terminato di allestire la mostra personale di Francisco Tropa Terra Platonica inaugurata a Venezia, alla galleria Caterina Tognon, durante i giorni apertura della Biennale. Non è la prima volta che lavoro con questo artista portoghese, che rappresentò il suo Paese alla Biennale di due anni fa, e penso che non sarà l’ultima: ho una particolare predilezione per il suo lavoro, che rivisita alla luce di una sensibilità contemporanea materiali, forme e generi provenienti dalla tradizione. Ho il piacere di essere il curatore del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti di quest’anno. Il mio compito è quello di seguire i quindici giovani artisti, provenienti da tutto il mondo, che parteciperanno al corso tenuto dal visiting professor, l’artista americano Matt Mullican, presso la sede della Fondazione nel luglio prossimo. Inoltre, assisterò Mullican nella realizzazione della sua mostra personale nella chiesa di San Francesco a Como. Sto preparando una mostra sulla “scultura performativa”: opere da manipolare, indossare, sopra le quali salire, con l’intento di far diventare il corpo stesso dello spettatore, scultura, anzi statua. Al museo Marino Marini di Firenze, a partire da gennaio 2014, presenterò una panoramica di questo filone inusuale, ma consistente, della ricerca scultorea dell’ultimo mezzo secolo, con il titolo Le statue calde. Infine, insieme a Cecilia Canziani, e sotto la supervisione di Andrea Zegna, curo il progetto ZegnArt, sponsorizzato dal gruppo Ermenegildo Zegna; un programma che ha luogo ogni anno in un diverso Paese extraeuropeo nel quale il gruppo è presente, e che combina una commissione d’arte pubblica a un artista mid-career e una residenza offerta a un artista emergente. Il Paese con cui siamo partiti è stato l’India: la prima parte del progetto si sta svolgendo fra Mumbai, dove nel marzo scorso è stata inaugurata un’opera pubblica di Reena Kallat sulla facciata del Dr. Bhau Daji Lad Museum, e Roma, con l’imminente residenza dello scultore e performer indiano Sahej Rahal al MACRO, partner del progetto per le residenze. La seconda tappa di ZegnArt vedrà invece come Paese di riferimento il Brasile, e si svolgerà a San Paolo nel 2014 (la commissione) e a Roma nel 2015 (la residenza)».

Nata a Bologna nel 1982, vive e lavora tra Bologna, Milano e Roma. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna, oggi è curatrice indipendente di mostre d’arte in Italia e all’estero. Iscritta all’ordine dei giornalisti, scrive articoli di arte per Il Resto del Carlino e per altre riviste del settore. Sportiva, appassionata di viaggi e… totally art addicted.

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