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Saranno famosi

di - 21 Dicembre 2013
Una corona verde d’alloro intorno al numero 97 su fondo giallo oro con stendardo blu, un logo di maglietta polo da collegiale blasé riadattato in versione pop per l’occasione, è la copertina del catalogo e il premio per la grafica della 97 collettiva Bevilacqua La Masa. Le autrici sono Lia Cecchin e Nicoletta Cannata. Questo disincanto ironico è l’emblema per raccontare la 97esima Collettiva (galleria di Piazza San Marco, fino al 19 gennaio 2014). Mostra diversa dal tipo di esposizione che si realizzava fino a qualche anno fa, essendo cambiato nel frattempo il contesto veneziano. Che così lo riassume Angela Vettese: «Quando sono arrivata, nel 2002, la scena veneziana era molto diversa. C’erano undici musei civici quasi immobili, una istituzione importante, la Biennale di Venezia, ma poco strutturata. Lo spazio e i dispositivi della Fondazione Bevilacqua La Masa erano sotto-utilizzati. Si tenevano retrospettive importanti, ma dedicate ad artisti già morti. Adesso queste operazioni non hanno più senso. In questi undici anni, nuovi investitori hanno deciso di puntare su Venezia: Fondazione Pinault con Punta della Dogana e Palazzo Grassi, Fondazione Prada a Ca’ Corner, Louis Vuitton con i suoi spazi. Contemporaneamente, con la presidenza Paolo Baratta alla Biennale, anche la struttura più grande di riferimento dell’arte internazionale, ma anche veneziana, si è consolidata. Nello stesso tempo in laguna si è concentrato l’interesse di alcune aziende come Moroso, Moleskine,  Stonefly, e sono nati spazi espositivi autogestiti. Quindi, oggi a Venezia, c’è un vero tessuto per l’arte contemporanea che ha permesso alla Fondazione Bevilacqua di fare quello per cui è nata. E il mio desiderio di un progetto culturale più ampio ha trovato una realtà che andava nella stessa direzione».
Quest’ultima collettiva curata Vettese lo dimostra. Le opere selezionate dalla giuria composta da Ilaria Bonacossa, Mirella Brugnerotto, Gigiotto del Vecchio, Antonio Grulli, Helga Marsala, Liliana Moro e Diego Perrone, tracciano un piccolo planetario: a un estremo nord ci sono i paesaggi, dal macro della carta geografica al micro del lenzuolo di casa e degli oggetti personali. All’opposto stanno le memorie o quello che ne resta, rielaborazioni di immagini traslate in altri oggetti e ricomposte con oggetti di scarto. A est ci sono i racconti sonori e le parole impossibili o i gesti congelati dai dispositivi di memoria; a ovest micro narrazioni e dichiarazioni di poetica in cui il significato auto-ironico quasi distrugge le figure e viceversa. La tensione fra oggetti, materiali, figure e dispositivi di narrazione è il senso generale della collettiva, eterogenea per definizione e per scelta e che si propone il compito di disegnare una tassonomia dell’arte più recente e dare continuità e respiro a un tessuto culturale a partire dai più giovani, più che assegnare direzioni e disegnare destini. Come nelle fiabe all’inizio della storia, il protagonista prende un oggetto magico, una mappa, che lo guidi per un’avventura più o meno lunga e strade più o meno impervie.
Fra i paesaggi, premiato il lavoro di Veronica De Giovannelli (1989), Ventimila metri cubi d’acqua al secondo. Una tela blu la cui dimensione gioca fra il colore e la non rappresentazione della superficie pura e la figurazione a distanza, che disegna il paesaggio delle bocche di porto della Laguna. Il titolo ritorna all’elemento primario, di nuovo contraddicendo l’indicazione geografica. Al contrario Oscar Contreras Rojas (1986) suggerisce paesaggi come traccia di una gestualità veloce sulla tela, come in quei momenti di memoria che si dimentica al suo primo apparire. Paesaggi di nuovo scomposti e ricomposti nella loro natura minerale di elementi e manufatti nell’opera Glass Mountain 02 di Kristian Sturi (1986), in cui i frammenti taglienti sovrapposti in strati mimano un processo geologico, sovrapposti e sospesi su un esile piccolo tubolare, un frammento di paesaggio che è anche il frammento di un Igloo di Mario Merz, con altri rimandi alla tradizione delle installazioni dell’Arte Povera italiana. Mappe IGM 1:50.000 ricondotte alla figurazione primaria, manomesse e risignificate come se il cartografo avesse deciso di perdersi nei dettagli, per Topos di Cristiano Menchini (1986).
Ancora resti di paesaggio nei fossili dagherrotipi di Alessio Mazzaro (1985), I tuoi resti. I Fighters di Fabio Roncato (1982) sono resti di ossa di animali rimontati in moduli di scocche di aereo da guerra (Premio Regione Veneto). Resti rimontati a formare non-memorie sono invece gli scarti fotografici degli Infiniti Orizzonti di Sabine Damiani (1985), e tassonomie impossibili e quasi dagherrotipi le ombre fotografiche di Michele Santi (1989) Serie A-B-C-D-E. Gli scarti di cantiere diventano  dispositivi improbabili di salvezza da un lusso claustrofobico per tentativi di evasione nell’istallazione 2 metri più 1 per evadere di Michela Bortolozzi (1986).
Quasi esiti di memorie temporanee affidate solo ai materiali riciclati e ai supporti impregnati come del tempo del dipingere sono i Senza titolo della serie di tele di Tiziano Martini (1983), in contrasto con la memoria infantile evocata dai disegni colorati di pastelli e acrilico in piccolo formato di Carlotta di Stefano (1988), Equilibrio interiore a dondolo. La difficoltà di ricordare con certezza è evocata dalle tele raccontate di Luisa Badino (1990), Una coperta troppo lunga.
E dispositivi per il racconto impossibile di una memoria fin troppo dettagliata sono i vocabolari che non traducono di Enrico Bernardis (1983), Az Elet Leford Ithatatlan, e le due opere premiate di Gian Marco Cugusi (1991), con il ronzio amplificato di un HD morente, Progetto Albrigoni, Cuore Abero, Cuore Vitello, e la documentazione sonora di una performance senza testimoni, come una realtà cancellata da un crimine perfetto del Nocturne n.3 di Graziano Meneghin (1982).
Si respira l’aria di giovani artisti interessati alla sperimentazione e aperti a molte strade, con un certo disincanto e con il desiderio di dimostrare padronanza delle proprie idee.

Ha collaborato con Duel, Duellanti, D’Architettura scrivendo di spazio e arte. Collabora con Exibart dopo aver pubblicamente richiesto a Germano Celant di firmare una dichiarazione che ripetesse le sue parole “Ragazzi, l’arte, in fondo, è artigianato”. La richiesta non è stata esaudita. Ha inoltre studiato presso l’Università IUAV di Venezia, dove ha seguito il laboratorio di Joseph Kosuth e ha conseguito un dottorato in Urbanistica nel 2012, dopo un periodo di studi negli Stati Uniti presso la UMBC di Baltimora e la New School di New York. Svolge attività didattica e di ricerca all’Università IUAV. Fra i suoi testi, Corridoi. La linea in Occidente, Quodlibet, Macerata 2014.

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