Essere rudi: questo l’imperativo categorico per la generazione di artisti emersa prepotentemente in Italia fra le due guerre. Il ritorno all’ordine –almeno per come veniva generalmente inteso– sembrava una formula vuota. Non bastava più il solo mestiere per essere artisti. Era necessario ritrovare le ragioni più profonde del fare arte. Depurarsi da ogni forma di accademismo significava riconquistare finalmente una sincerità dell’espressione quale irrinunciabile prerogativa dell’arte moderna.
In questa direzione si muovevano anche i due siciliani Pina Calì (1905-1949) e Silvestre Cuffaro (1905-1975). Ricostruisce la loro avventura esistenziale la grande retrospettiva allestita a Bagheria: monumentale nel numero delle opere –dipinti, disegni, sculture– e nell’apparato documentale esposto. L’allestimento passa in rassegna tutte le fasi della produzione dei due artisti, dagli anni della formazione, fino alla prematura morte della Calì nel 1949, per arrivare alle ultime opere del marito degli anni Sessanta-Settanta, quando più sfilacciato e meno convincente appare il suo discorso artistico, rispetto al decennio a cavallo fra le due guerre. È soprattutto allora, infatti, che le prove dei due si inseriscono pienamente nel dibattito critico del tempo, nel configurarsi come proposte affatto originali e ben caratterizzate all’interno della pletora di personalità che affollavano il sistema delle mostre sindacali messo a punto dal regime fascista negli anni Trenta.
Pina Calì dialoga alla pari con le più accreditate figure del Novecento Italiano, riuscendo tuttavia a ritagliarsi singolari margini di maturo europeismo, con un occhio attento ai profili netti e taglienti della Nuova Oggettività tedesca, ed in specie alla sua mediazione in Italia per il tramite di un autore come Cagnaccio di San Pietro. Si guardi in tal senso la disarmante consistenza oggettuale di un’opera come Vaso e pugnali del 1930, oppure, dello stesso anno, una tela come Mariuccia, dalla matura evidenza figurativa raggelata sul primo piano ravvicinato di una spietata ripresa dal vero.
Dal canto suo Silvestre Cuffaro gioca la sua partita con la scultura tutta all’interno della riflessione di Arturo Martini sulla morte del monumento, in un sentimento antielegiaco di ripiegamento della materia plastica dei suoi lavori. Le sculture più incisive si attestano allora sulla misura rozza e quasi abbozzata di una maniera primitiva, dal fascino ancestrale e dall’asciutto sapore metafisico. Accade nel Ritratto di ragazzo, gesso del 1935, o nella Bambina dormiente del 1934: anti-monumento alla solitudine di un corpo inerme, sottratto al divenire del tempo.
Di tutt’altro tenore appaiono le opere più recenti di Cuffaro, infelicemente affastellate accanto ai pezzi storici della produzione dello scultore. Si sarebbe potuto selezionare un po’ di più, e chiudere anche per lui ai tardi anni Quaranta, quando la dolorosa perdita della moglie segna in realtà per entrambi la conclusione di una stagione creativa di grande vitalità e interesse.
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bella recensione e bella mostra, l'ho vista ieri dopo aver letto qsto articolo...però pensavo, perchè non aggiungere qualcosa sulla villa/museo in cui si trova e sul tipo di allestimento in più parti della villa?
ciao, i.