È un continuo limitare al bordo di una sofisticata e insieme semplicissima astrazione la pittura di Pupino Samonà (Palermo, 1925), oggi al centro di una grande mostra che ne ripercorre l’intero percorso creativo. Dagli esordi nei primi anni Cinquanta, fra Palermo e Roma, dove presto Samonà si trasferì, fino alle ultime realizzazioni dell’anno in corso, radicate più che mai nei modi rarefatti e totalizzanti di una pittura di forte trascendenza immaginativa. È così dunque, nella valutazione complessiva del catalogo dell’artista, che appaiono chiare per la prima volta le ragioni di un’ormai lunga e ostinata ricerca, coerentemente salda su una cifra del tutto personale –certo assai originale nel panorama italiano della seconda metà del Novecento– di insinuante spiritualismo aniconico, in bilico fra impegnata significazione ed evanescente trasfigurazione lirica.
Dopo una prima tentazione informale, tuttavia già avvertita sulla migliore tradizione segnico-gestuale, tanto italiana quanto internazionale, si definisce abbastanza presto l’identità del pittore. Sollecitato dall’incontro con gli artisti del gruppo Forma, nel 1949 si trasferisce nella capitale ed è allora che maturano le prime compiute sintesi d’ordine matematico, d’approccio disinvoltamente scientista. Non solo per l’utilizzo dell’aerografo, ma anche, e soprattutto, per quell’universo di segni geometrici presi in prestito dai linguaggi astratti delle avanguardie storiche e ora finalmente declinati in una sorta di stupore “fisico”, d’indagine sulla materia e sulle metamorfosi organiche del suo rivelarsi alla nostra percezione.
Si inseguono così, lungo tutto il corso degli anni Cinquanta e Sessanta, le visualizzazioni di “espansioni”, “esplosioni” ed “energie”, tempestivamente rilevate dalla critica più accorta –e valga per tutti il nome di Emilio Villa– per il loro carattere di assoluta novità, in anticipo su talune soluzioni formali proprie dell’hard-edge statunitense, ed in piena sintonia con quella sublime abstraction di cui Robert Rosemblum scriveva nel 1960 a proposito della pittura di Newman, Rothko e Gottlieb.
Fra gli astrattisti storici, è certamente Balla il più amato dal pittore siciliano, non solo per quella sempre felice eleganza di intersezioni luminose, di magici intrecci di linee curve e rette, ma proprio per la capacità del futurista di proiettare sull’ordito delle sue composizioni un’atmosfera di iniziatica sospensione, ad alto contenuto misterico, ed insieme di rutilante eccitazione visionaria. Sarà allora il colore ad esplodere nelle tele di Samonà degli anni Ottanta e Novanta, nel ciclo Mediterranea (1988) o ancora, ad esempio, nelle opere Onirico (Sognando Piana) (1994) e Bolle universali (1995).
Parallelamente, l’esigenza di una maggiore stringatezza cerebrale si attesta risoluta nel ciclo delle “fessure” (1988): esempio estremo di un azzeramento del linguaggio che, attraverso gli “abissi” e le “dinamiche in nero” degli anni Novanta, porterà alla conquista di una materia che si dà per sottrazione, per sua stessa negazione, quasi fosse l’eclisse stessa della pittura a scandire ora i tempi ed i modi di una finalmente acquisita empatia con il cosmo.
Unica deroga all’astrazione i trenta grandi bozzetti della “tela di Auschwitz”, l’imponente spirale del Memoriale italiano che Samonà realizzò tra il ‘79 e l’80 in collaborazione con lo studio BBPR di Milano, in cui è tuttavia ancora il carattere di evocazione lirica a prevalere su ogni pericolo (sempre latente in questi casi) di indulgenza narrativa o tentazione didascalica.
davide lacagnina
mostra visitata il 9 giugno 2006
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