Tre curatori e sessanta artisti: nel Palazzo delle Papesse è allestito âIl Donoâ, progetto espositivo a cura di Gianfranco Maraniello e Antonio Somaini, coordinati dal direttore Sergio Risaliti, che sviscera lâuniverso che ruota attorno al concetto di âdonoâ.
Lâesposizione, seguendo la tendenza degli ultimi eventi alle Papesse, è ricchissima in termini quantitativi. La qualitĂ tiene peraltro in maniera stupefacente e la mostra ci pare la migliore mai prodotta dal giovanissimo centro dâarte senese.
Come fare a parlare di âdonoâ quando tutta lâarte, in sĂŠ, può esserlo? Come fare a distinguere tra dono di un oggetto, di un concetto, o di se stessi? E in questâultima accezione come isolare i temi del sacrificio del proprio corpo, della propria anima? Come affrontare il discorso sulla solidarietĂ , la salvezza, la morte?
Il team curatoriale delle Papesse sembra essere riuscito ad aggirare queste oggettive difficoltĂ .
Una immensa mano aperta (Felix Gonzales-Torres) copre tutto un muro e dĂ avvio al percorso espositivo, sotto di essa â paradossalmente â due elementi respingenti come una trappola di ferro e un tappetino (di quelli che si mettono fuori la porta dâingresso) sul quale la scritta âwelcomeâ è ricavata tra migliaia di spilli puntuti. Di fronte, il giovane toscano Luca Pancrazzi, espone un dipinto raffigurante lâuomo bomba che arriva a donare il suo corpo per la causa comune. Il piccolo Cavallo di Troia di Liliana Moro dimostra come un lavoro debole possa diventare importante se inserito adeguatamente in un contesto espositivo, lâopera della Moro dialoga poi (non sono però state esposte vicine) con un magnifico quadro in cui Kiki Smith
Secondo Giulio Paolini (il suo quadro rappresenta la Sibilla cumana che conferisce lâispirazione), Piero Manzoni e Giuseppe Penone (superba lâinstallazione a muro) il dono diventa qualcosa di etereo, divino, unâispirazione apollinea.
Di grande fascino il tema del dono/sacrificio di se stessi: in un video che riprende una celebre performance, Yoko Ono consente al pubblico di tagliarle brandelli di abito, fino a rimanere svestita; Marina Abramovic mette a disposizione degli strumenti con i quali si può agire indiscriminatamente su di lei per un numero preciso di ore. Come questâultime artiste anche Mariko Mori offre il suo corpo ma ponendosi nella condizione, ironica ed erotica, di una geisha.
Difficile parlare di tutte le opere in mostra, di tutte le connessioni cognitive, culturali, semantiche che la mostra induce. Concludiamo accennando ai lavori Herman Nitsch ed a Jochen Gerz : il primo, tra i fondatori dellâazionismo viennese, espone una croce âvestitaâ con una tonaca, tutto è imbrattato con schizzi di sangue e altri liquidi vitali. La sensazione è quella, terribile, di una esplosione di violenza, di un corpo straziato che si dona a Dio in unâorgia cruenta.
La stanza di Jochen Gerz è la principale del secondo piano e presenta una infinita serie di ritratti fotografici in b/n: sono gli abitanti di una cittĂ del nord della Francia, fotografati dallâartista. Alla fine della mostra gli scatti furono regalati ai partecipanti in maniera casuale. Ognuno tornava dunque a casa con il viso di un concittadino, un efficace ed aggregante dono sociale.
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