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La performance di Cecilia Luci fa rivivere la storia della Casa delle Donne di Roma

di - 4 Febbraio 2019
Una fila di monache attraversa, a capo chino, gli stretti passaggi di un monastero fondato nel 1615 da un prete spagnolo per la correzione delle donne di malaffare: penitenza e contrizione si leggono sui loro volti, le palpebre abbassate e lo sguardo lontano sotto il velo nero che piega la loro testa. Nelle celle, prendono vita figure di donne attualmente recluse nel carcere di Rebibbia, proiettate sul muro come ologrammi alla luce fioca e tremolante di una candela: apparizioni che incarnano la memoria intima di questo luogo.
Le monache, oggi come nei secoli scorsi, tornano a visitare le celle, camminando tra il pubblico impacciato e intimidito dalla loro presenza e indotto a un profondo e rispettoso silenzio; si spogliano infine dei loro abiti, come si spogliassero da un peso, da un condizionamento, dalle definizioni con cui le donne che hanno abitato questo luogo – siano esse detenute o suore sentinelle – sono pensate e pensano se stesse in una società che punisce il disagio, lo chiama “colpa”, lo disciplina, ma non lo cura.
Una ferita dell’anima alla quale Cecilia Luci, nel lungo lavoro con le carcerate da cui è tratta In potenza sono tutto, la performance realizzata nel complesso del Buon Pastore (oggi sede della Casa Internazionale delle Donne), ha saputo accostarsi con delicatezza e semplicità, senza domandare, senza giudicare.
«Le celle mi colpirono sin dalla prima volta che le visitai, diversi anni fa – spiega Cecilia Luci – Solo in seguito capii cosa fare di quella sensazione e di quelle voci che mi avevano rapita, permeata e trattenuta lì per tanto tempo, in quello spazio sovrasensibile apparentemente inesistente. Le voci vogliono essere ascoltate, strappate a quella reclusione, l’unica via non è la sottrazione, la negazione dell’accaduto, ma l’amplificazione degli accadimenti di quel luogo antico abbandonato e dei suoi segreti che trama per essere rivisto, rivisitato, curato».
Memoria e luogo sono le parole chiave della performance, svolta con un linguaggio elegante, essenziale, quasi austero, estremamente evocativo e aderente al contenuto: memoria di singoli individui, privata ma anche collettiva, nascosta, non riconosciuta, assorbita dai luoghi o in essi depositata. L’incrociarsi di passato e attualità può farla rivivere, risollevarla come il fumo dell’incenso bruciato nelle stanze del convento.
Parole, preghiere, rimorsi e speranze sussurrati; un coro claustrale; gesti minimi e silenziosi come svelare il capo di fronte a uno specchio e considerare il proprio viso in un momento di solitudine e sospensione, riconoscersi: troppo privato, troppo insignificante per entrare nella Storia, che pure su questo silenzio e questa solitudine ha poggiato le fondamenta delle sue istituzioni di potere. Un vissuto impercettibile da recuperare. (Mariasole Garacci)

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