The Inanna Project (ph. Alessandro Villa)
Il teatro, nella sua forma più pura, è un rituale, un atto di trasformazione collettiva in cui il corpo, la voce e la memoria si intrecciano per dar vita a significati nuovi. The Inanna Project, lo spettacolo diretto da Thomas Richards e prodotto dal gruppo Theatre No Theatre, si inscrive perfettamente in questa tradizione, offrendo al pubblico un’esperienza sensoriale e spirituale che affonda le sue radici nel mito sumero per proiettarsi nella contemporaneità.
Thomas Richards, erede e principale allievo di Jerzy Grotowski, con cui ha condiviso oltre un decennio di intensa ricerca al Workcenter, raccoglie e rinnova in questo lavoro l’eredità del maestro polacco. La sua regia si distingue per rigore, profondità e apertura alla dimensione interculturale, rendendo Inanna una tappa significativa nel percorso del teatro di ricerca contemporaneo.
La figura di Inanna, antichissima dea sumera dell’amore, della fertilità e della guerra, incarna la complessità dell’esistenza umana. La sua discesa negli inferi e il ritorno alla luce diventano qui metafora potente di un viaggio iniziatico, spirituale e identitario. Lo spettacolo interroga il presente attraverso il mito, ponendo al centro il bisogno di trasformazione e rinascita.
L’aspetto più affascinante è la polifonia culturale e linguistica che abita lo spettacolo. I testi antichi vengono tradotti e incarnati in più lingue, dallo spagnolo al coreano grazie alla straordinarietà degli interprti in scena Hyun Ju Baek, Ettore Brocca, Kei Franklin, Alejandro Linares, Jessica Losilla-Hébrail, Fabio Pagano e lo stesso Richards, in un processo che va oltre il semplice adattamento, diventando riscoperta identitaria. Ogni attore contribuisce con canti legati alle proprie radici, evitando il rischio di un “minestrone culturale” e puntando invece alla verità del gesto e della voce. La musica non accompagna, ma struttura: canto e corpo si fondono in una partitura che richiama il “teatro povero” di Grotowski e l’antropologia teatrale di Eugenio Barba.
In Inanna, il corpo dell’attore si fa pelle della memoria, soglia viva tra il visibile e l’invisibile. Non è mera esecuzione di tecnica, ma carne che ricorda, che custodisce tracce di gesti antichi, come iscrizioni lasciate dal tempo su una superficie fragile e sacra. Gli interpreti si muovono con una qualità rara, forgiata da anni di ricerca, di rigore e di ascolto profondo: ogni passo, ogni respiro, ogni vibrazione della voce sembra scaturire da un luogo intimo e arcaico, come se la scena fosse attraversata da un’eco che non appartiene solo al presente.
I corpi non fingono, ma abitano. Si offrono al pubblico come veicoli di una verità che non può essere detta, solo incarnata. Nei loro movimenti si intrecciano il peso e la leggerezza del rito, la tensione della domanda e la sospensione della risposta. Nulla è decorativo, nulla è illustrativo: ogni azione è necessaria, ogni silenzio è pieno. È un teatro dove l’immagine non si mostra, ma si rivela lentamente, come una figura che affiora dall’acqua.
In questo lavoro, la tradizione non viene rappresentata: viene vissuta e rinnovata, affinché possa ancora parlare, ancora toccare, ancora trasformare. Inanna è una celebrazione della continuità della memoria umana. Ci invita a domandarci se le storie di cinquemila anni fa abbiano ancora senso per noi oggi. E la risposta arriva non come affermazione, ma come tensione creativa. Il pubblico stesso viene incluso nel processo: ascolta, riflette, si trasforma. Proprio in questo risiede la forza dello spettacolo, che non separa la ricerca dalla fruizione, ma li fonde in un unico respiro.
Thomas Richards firma un’opera che è al tempo stesso performance rituale e indagine spirituale. Inanna trascende il teatro come intrattenimento: è una chiamata, un viaggio collettivo dentro e fuori di sé. In un tempo segnato da superficialità e crisi di senso, questo lavoro restituisce centralità all’atto creativo come urgenza e come dono.
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