DellâirriducibilitĂ del teatro, della banalitĂ del male.
Ci crediamo comunque, visore o no. Lâunica cosa che non vedo, da lĂŹ dentro, è la mia mano.
Tutto il resto câè. Il teatro dove mi sono seduta a un metro dal mio prossimo, piacevole quasi, anche se non ci si può bisbigliare commenti nel mezzo dellâazione.
Lâemozione è singola, il visore e la cuffia anche. Pesa, poi lâazione comincia e ce se ne dimentica.
Elio Germano, rapato a zero, sta sul palchetto dello Spazio Tondelli di Riccione, le riprese fatte un anno fa. Il testo di Segnale dâallarme â La mia battaglia VR lâha scritto insieme a Chiara Lagani, nota drammaturga e fondatrice della compagnia storica Fanny & Alexander. Lui chiacchera allegramente col pubblico, in jeans, camicia e un golf che ci dichiara lâinverno anche se ora è estate, le scarpe stringate. Apparentemente non si è cambiato. Ci parla di teatro, del fatto che stasera siamo qui, invece di esserci buttati sul divano, che siamo tornati dal lavoro e siamo usciti di nuovo per raggiungere questo piccolo posto da dove lui ci parla. Siamo eroi del quotidiano, una nicchia di eroi ci fa sentire, un piccolo gruppetto, però folto e compatto, il teatro è pieno.
Ci parla del lavoro, del suo di attore, che non vede lâora di arrivare alla sera, fare lo spettacolo e finire, cambiarsi e tornare a casa sul suo di divano.
Come noi. Il lavoro. Il lavoro ha un senso, quello materiale, ci fornisce quello che serve per campare e quello ideale, ci dĂ un ruolo interno alla nostra comunitĂ , ci rende parte attiva di una societĂ che continuiamo a costruire, idealmente a migliorare. Lavoro ideale.
Tuttavia viviamo in una societĂ , ci fa notare, dove il lavoro non lo fa necessariamente chi lo sa fare, ma chi sa piacere. Chi piace di piĂš, chi ha piĂš like.
Tuttavia, se il teatro in cui ci troviamo fosse una nave e questa nave affondasse contro unâisola deserta, e tutti insieme dovessimo sopravvivere, diventerebbero allâimprovviso fondamentali le competenze.
Le competenze di ciascuno di noi. Chi sa cucinare per 100 persone su di un fuoco allâaperto? Câè un medico? Un ingegnere? Un falegname? Un garzone. E allâimprovviso ci fidiamo ciecamente di chi ci dice di essere qualcosa. Un medico è un medico, ohibò.
E se stesse bluffando?
Chi è capace di fare cosa? Elio fa domande, cerca, il pubblico partecipa, risponde, si presenta, si arma, si disarma.
E questa democrazia poi a cosa serve, se è fatta di piacioni e di incompetenti? O peggio di piacioni incompetenti?
Meglio un governo di tecnici.
Ecco, il punto inquietante di tutto questo discorso è che Elio Germano non ci sta parlando del presente ma la sua è una rilettura di Mein Kampf, della autobiografia di Hitler, niente poâ poâ di meno.
Davvero?
Davvero?
Ma tu lâhai mai letta? No, effettivamente no.
Se la scarichi da internet poi ti prendono per un Nazi, meglio comprarla in libreria. Oh Dio, ci tocca rileggerla. Leggerla, non rileggerla. Ă vero, leggerla.
E cosĂŹ, una parola dietro lâaltra, una battuta dietro lâaltra, emerge la peggio retorica patria, emerge cattiveria, emerge paura, emerge razzismo, emerge la connivenza che â oh! noi tutti proviamo? â o almeno abbiamo bisogno di un istante di distacco per sbarazzarcene, comâè che siamo arrivati fin qui? Pareva una cena tra amiciâŚ
Ma no, qualcosa è cambiato, questo signore sta trascinando una folla che gli dice di sÏ, sul serio? SÏ sul serio.
Cala il silenzio, mentre sul palco un gruppo sale, persone del pubblico, certo, i nostri vicini di un minuto fa, che urlando anatemi razzisti, sessisti, ultraviolenti e ignoranti, srotolano la bandiera nazista, davanti a questo signore che ora parla a scatti, sussulta, ordina e si sbraccia. Gli mancano i baffetti, ma la certezza agghiacciante è che si tratta di Adolf Hitler in persona.
Il visore si spegne e parte lâapplauso, vivo, caldo, reale, sicuro nella sala vuota dove quel signore è scomparso e restano i nostri vestiti colorati che la riempiono dâestate.
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