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fino al 19.III.2006 | T1 – La sindrome di Pantagruel | Torino, sedi varie

di - 2 Dicembre 2005

Con un titolo così non si poteva che cominciare dall’intestino –ovvero la Manica Lunga del Castello di Rivoli– per intraprendere il nostro viaggio nelle viscere di cotanto fenomeno. Ritrovandoci subito nel mezzo di un vero e proprio intasamento, da accumulo indiscriminato di oggetti vari, nel segno di una datata ambientazione hippy per l’americano Justin Lowe (Dayton, Stati Uniti, 1976). Preludio al blocco intestinale, posto più avanti e quasi in dirittura d’arrivo, costituito dagli osservatori del duo torinese GAZEaBOut (Matteo Patrucco, Casale Monferrato-Alessandria, 1976; Walter Visentin, Torino, 1969). Pensati per lanciare lo sguardo oltre le fenditure di queste frastagliatissime costruzioni, in materiale recuperato nelle discariche abusive. Un inizio e una fine esemplari per una Triennale dove il tema portante –l’eccesso e insieme la fragilità dell’arte contemporanea– ha determinato non solo le scelte artistiche ma anche la struttura espositiva della rassegna. Trasformando l’intera città di Torino, attraverso sette sedi museali e non sparse qua e là, in un enorme ventre, fagocitante tutto il digeribile possibile. Su indicazione di due curatori “locali” –Francesco Bonami (direttore artistico Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e Carolyn Christov-Bakargiev (capo curatore Castello di Rivoli)– supportati dal consiglio di dieci giovani corrispondenti internazionali. Delle preziose antenne per captare, come solerti inviati di una redazione giornalistica, i segnali di quanto accade artisticamente in ogni parte del mondo.
Così, a Rivoli, la Manica Lunga diventa il luogo dove celebrare il rito della digestione, per esempio, di un maialino. Composto –e poi dissezionato– da migliaia di chewingum rosa, masticati nel corso di ben 14 mesi dalla sua autrice Melissa Martin (Indianapolis, Stati Uniti, 1975), si offre alla mercé della gente tra video, videoproiezioni, installazioni e ancora video.

Come quello dell’argentino Sebastiàn Diaz Morales (Comodoro Rivadavia, 1975) che, proiettato su schermo nero, disegna le sagome di una folla inferocita, nell’atto di assaltare un portone. Prefigurando l’incubo di una qualsiasi rivolta in un crescendo di angoscia, al limite del sopportabile. O quello altrettanto ansiogeno del cinese Chen Xiao Yun (Hubei, 1971), nel quale la frenesia delle metropoli asiatiche trova il suo referente visivo nel montaggio a scatti lampeggianti del suo Lash (2005). Decisamente più distensive le scenette comiche dell’attrice di professione Shannon Plumb (Schenectady-New York, Stati Uniti, 1970), dove scimmiotta con autentica ironia i tanti luoghi comuni legati alla pubblicità e alle cronache di gare sportive –degli improbabili Olympic Games– utilizzando la mimica del cinema muto. Ancora tante immagini in movimento, questa volta ubicate nella fascinosa Casa del Conte Verde, quattrocentesca dimora trasformata in suggestiva macchina ottica, per definizione della stessa Christov-Bakargiev. Nella quale poter ammirare le opere di tutti quegli artisti, interessati a sondare le possibilità della percezione visiva, alterata dall’uso della tecnologia. Un’indagine che diverte, nell’installazione di Riccardo Previdi (Milano, 1974), mentre riflette su una superficie specchiante la proiezione di alcune scene tratte da Star Wars. E commuove, nell’animazione grafica Dark Mirror (2005) di Carlos Amorales (Città del Messico, Messico, 1979), ispirata agli attacchi aerei dell’11 settembre. Dove la tragedia si tramuta in struggente poesia, tra delicate silhouettes nere che si disintegrano, sulle note di una malinconica partitura eseguita al pianoforte.

Un trapasso dalla vita alla morte suggerito anche dall’installazione sonora Stay with Me (2005) di Susan Philipsz (Glasgow, Scozia, Regno Unito, 1965). Ma dalla maggiore dimensione intima, acuìta dalla collocazione in una chiesa –la seicentesca Chiesa di S. Croce– e dalla spoglia registrazione della voce non professionista dell’artista stessa. Che canta a cappella per 45 minuti 3 canzoni tratte dal repertorio di Echo and the Bunnymen, Joe Wise e Radiohead.
Di tutt’altro registro, invece, il work in progress Esculenta Lazzaro (dal 2004) dell’altro duo torinese formato da Andrea Caretto (Torino, 1970) e Raffaella Spagna (Rivoli, Torino, 1967). Autori di un’opera che vive, anzi ri-vive nel pieno centro della Manica Lunga, grazie ad un processo di riattivazione del ciclo vitale. Quello di comuni ortaggi che, una volta liberati dai vincoli imposti dalle necessità alimentari umane, tornano a crescere e a produrre fiori e semi in tutta naturalezza. Di nuovo la Vita, quindi, e poi A Morir (2003) nel turbinìo di trottole impazzite, di un’intensità tale da togliere il fiato. Si tratta dell’immenso trittico in bianco e nero di Miguel Ángel Ríos (Catamarca, Argentina, 1953) che, videoproiettato nell’oscurità del terzo piano del Castello, mette in scena un gioco crudele. Fatto di urti, cadute, risalite e violente discese, in una sorta di cinica –ma realistica– gara per la sopravvivenza.
Un cerchio che si chiude, come il tendone da circo posizionato dal venezuelano Javier Téllez (Valencia, 1969) per ospitare il proprio video The Greatest Show on Earth. Nel quale si assiste al lancio oltre il confine messicano di un uomo-cannone, incarnando, così, una grottesca forma di immigrazione coatta, tutta da ridere.
Archiviata Rivoli, la nostra missione targata T1 prosegue speditamente alla volta di Torino, dove ci ritroviamo alla Fondazione Merz per conoscere il modus operandi di un’altra fetta di giovani artisti –tra i complessivi 75– invitati a comporre questa prima edizione. Qui, a catturare immediatamente l’attenzione, è il silenzio cosmico evocato dai cinque video della serie Vault Sequence (1997-2000) di Brian Fridge (Forth Worth, Texas, Stati Uniti, 1969). Che, attraverso un sistema articolato di micro-telecamere nascoste all’interno del suo stesso frigo, registra per anni il lentissimo decorso dei cristalli di ghiaccio e del relativo vapore acqueo.

Nell’intento di riprodurre in scala ridotta i meccanismi di vita nello spazio. Una videoinstallazione di 5 monitor, che ben si sposa con la filosofia merziana del luogo ospitante, tutta basata sul tema della crescita. E qui documentata senza l’uso alcuno di montaggio, come anche il video Fast and Best (2002) di Fikret Atay (Batman, Turchia, 1976). Dove, in un unico piano-sequenza, si può seguire il ritmo ossessivo e ipnotico di geometrie militaresche, generato da una schiera di gambe fasciate in abiti unisex, mentre ballano una danza tradizionale turca. Ancora dei torinesi, e ancora un duo, questa volta formato dai gemelli Massimiliano e Gianluca De Serio (Torino, 1978) che, avvezzi a frequentare il linguaggio puramente cinematografico, presentano per T1 un cortometraggio inedito. Lezioni di arabo (2005) è difatti un piccolo film in 35 mm sulla perenne questione immigrazione-integrazione-identità sociale, che però ne coglie un aspetto peculiare dell’anima di una città come Torino, a così alta concentrazione musulmana. Di attualità, ma di spirito vagamente irrisorio, sono anche le finte bombe ad orologeria del russo David Ter-Oganyan (Rostov-na-Donu, 1981). Disseminate un po’ ovunque tra le sedi della Triennale, producono l’effetto di una colossale caccia al tesoro, di un percorso ad ostacoli irto di pericoli, e sul punto di autodistruggersi. Perché all’eccesso subentra quasi sempre il collasso. E anche il gigante Pantagruel non si sente poi tanto bene.

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T1 – La sindrome di Pantagruel
75 giovani artisti internazionali e le personali di Takashi Murakami e Doris Salcedo
Organizzatori: Fondazione Torino Musei, Castello di Rivoli (Museo d’Arte Contemporanea), Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
Enti Promotori: Regione Piemonte, Provincia di Torino, Comune di Torino, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT
Triennale Torino Tremusei
dal 10.XI.2005 al 19.III.2006
T1 – La sindrome di Pantagruel
a cura di Francesco Bonami, Carolyn Christov-Bakargiev
Rivoli: Castello, Chiesa di Santa Croce, Casa del Conte Verde
Torino: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Fondazione Merz, Gam
www.torinotriennale.it


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  • Meno male che il maiale della Martin è fatto di gomma da masticare "masticata", altrimenti avremmo dovuto dire che è una copia spiccicata dei lavori del nostro Maurizio Savini.

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