Ci sono molti modi di dipingere e molte
maniere di fare pittura, di scinderla, di urlarla, di cambiarla, di tergerla, di aggiungerla e persino di nasconderla.
Piero D’Amore (Torino, 1944) conosce bene ognuna di queste fasi, andature pittoriche di crescendo e calando che non intaccano la messa in scena simbolica della rappresentazione, ma ne segnano strutture e percorsi. Dipingere allora diventa un modo per ripetere senza ripetersi, attraverso codici estetici che riconducono la verità dell’essere a un’atmosfera mielosa, iper-cosciente e post-sentimentale, che copre ogni oggetto senza dare alcun respiro a chi soltanto ne osserva le fattezze.
È attraverso quest’ultima personale, dopo cinque anni di stallo, che il pittore dai mille passati sceglie di esporne e di rivelarne un lato. Un lato sintomatico di un limite interno. Una sfaccettatura creativa che fa emergere il carattere formale più aggiuntivo del fare-arte, trovando uno spazio per quella venatura kitsch che si somma all’evidenza e che su essa insiste. Il risultato finale, dunque, è il conferimento pragmatico e visivo di molti strati,
lamellature che si stendono donando (si veda il lezioso
Aspettando Tarzan) un risalto sgargiante e una frettolosa magniloquenza alla composizione; senza, comunque, insidiare alcuna minaccia decorativa o iper-diegetica nelle trame del lavoro finale.
Questi elementi all’interno dei lavori, cesellati come motori di ridondanza, provocano all’occhio una vendetta del gusto che però, poi, non sommuove e non crea il necessario scompiglio nel campo del senso estetico particolare.
Nei lavori di D’Amore la cornice diventa, così, una scusa, un pensiero di contenzione, per una presa diretta dell’oggetto (
Handle with care). Il referente ultimo della raffigurazione, attraverso colla e pennello, si trasforma in un tramite, un luogo lucido per la similitudine (l’uso spropositato di forme note, di spaccati prevedibili e di
repêchage stilistici posticipati). Il sistema scenico e realizzativo di questo artista è sostanzialmente legato a un metodo di fruizione della pittura come collante di assemblaggi materici. Una maniera a-narrativa del dipingere che porta D’Amore ad aggiungere all’insieme del quadro tautologie d’eccezione, anche se dall’etimo incrinato (come nel dipinto
Dolori/Colori).
La sua profonda volontà di scavare nel già visto (come testimonia il
tableau vivant di
Tank you) riprende, però, l’apparente pantomima di una vita di società che riflette se stessa, senza badare ai cicli noiosi delle ricorrenze del pensiero e agli spenti primati dell’emulazione.
Così, senza distinzione tra pubblicità, arte, passato, nature e artifici, le tavole terse e impastate dai colori di smalto (
Le ali della vittoria (sponsor)) vanno in cerca dell’impegno visionario e immaginifico
giusto, quell’accordo soggettivo che serve ad appartenere. Quello spessore fatto per riconfermare la realtà, sottratta e riportata senza scampo dalle cose così come sono, o dovrebbero essere.