1790 – 2005. Anni che non sembrano avere altro in comune se non la sofferenza provocata da guerre, disastri ambientali ed epidemie. Nel 1790 Francisco Goya, il grande ritrattista della corte spagnola -così abile da riuscire ad essere, nello stesso ritratto, celebrativo ed impietoso- pubblicava i Capricci, una cartella di incisioni in cui mostrava un’umanità abbruttita, miserevole, i volti resi caricaturali dai segni della sofferenza ma anche dalla perversione e dalle debolezze. Oggi il make up è accessibile a tutti, e non è facile vedere in giro i volti che hanno dato origine a questi incubi. Ma non per chi sa vedere aldilà della maschera di fard, eleganza e ipocrisia di chi, avendo in mano lo scettro del potere, ha la responsabilità di queste sofferenze, schiavo della propria posizione e della propria esposizione mediatica.
Marguerite Kahrl si ispira a Goya, ma i suoi Noble Savages non vogliono rappresentare l’abbrutimento dell’ignoranza e dell’inciviltà, ma l’altra faccia della civiltà. Non a caso, sono posti su alti piedistalli; e non a caso, sostituiscono al nobile marmo l’umile canapa tessuta nelle valle piemontesi dove ha trovato rifugio. L’intenzione allegorica non è esente da una certa pesantezza; ma, come sempre nel lavoro della Kahrl, viene ampiamente riscattata dalla freschezza del risultato, e dall’indubbia suggestione dell’installazione.
La mostra è completata da alcuni studi su carta dei Nobili e da tre grandi disegni, tutti del 2005. Questi, nonostante la riuscita dell’exploit scultoreo dei Noble Savages, riconfermano la centralità della pratica del disegno nell’opera eclettica dell’artista.
Dotata di una tecnica disegnativa raffinata e sicura, Marguerite Kahrl se ne serve non come strumento rappresentativo, ma come mezzo speculativo. I suoi disegni sono progetti, abbozzi di sistemi di pensiero mai conclusi, diagrammi della complessità. La familiarità che l’artista -che ha collaborato con l’oramai defunto Interaction Design Institute di Ivrea- ha con i nuovi media induce a pensare che, più che di testi, si tratti di ipertesti, che condividono con una complessa animazione in Flash i colori squillanti e la stratificazione dei livelli. Nell’accavallarsi di scritte, disegni e diagrammi è spesso molto difficile trovare la chiave di volta di questi micro-sistemi.
In Parrot Cage, è forse un appunto fra i tanti, “ecological interconnectedness”, a raccogliere i fili che collegano l’uomo-pappagallo del titolo ai lacerti figurativi che gli orbitano intorno.
Il senso di Gatekeeper, in cui domina il motivo figurativo della migrazione delle anatre, potrebbe essere dischiuso da un versetto del Levitico appuntato ai margini: “Do the sound of a shaken leaf shall chase him?” Mentre Apollo at Night, che apre la mostra, sembra chiudere il cerchio tornando alle grandi manovre dei potenti, rievocate dai carri armati che marciano in fila, fra frotte di cinesi e antichi simboli del potere. Il tutto reso con la leggerezza che si addice al pensiero, e che è il tratto distintivo di tutto il lavoro di questa bizzarra americana emigrata nel canavese.
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