Apparentemente privi di ogni senso dell’ordine, gli accumuli di Jessica Stockholder (Seattle, 1959) rivendicano il proprio diritto ad una nuova esistenza da objets trouvés. Oggetti e materiali eterogenei hanno così l’occasione di riscattare il proprio passato, perlopiù domestico, diventando altro da sé. Cioè pure forme, assemblate in un contesto museale. Dove, a volte, la logica del caos sembra avere il sopravvento sull’accordo cromatico e formale di derivazione minimalista. In realtà, la Stockholder non rinnega del tutto le proprie origini legate all’ideologia delle strutture primarie e utilizza in modo ossessivo e ripetitivo tutti quegli elementi che servono ad organizzare la sua opera e a scandirne il ritmo. Come fili, corde, cavi e lampade che, secondo l’interpretazione di Michel Gauthier, “rappresentano gli efficaci strumenti di un’integrazione esclusivamente formale, in quanto solo raramente attratta dagli aspetti rassicuranti di un’idea o di una raffigurazione”. Un’integrazione che offre una sintesi visiva proprio di quell’ordine momentaneamente smarrito, forse perché completamente interno e celato alla vista di uno sguardo troppo frettoloso. Un ordine che, invece, necessita soprattutto dell’intervento attivo di uno spettatore ricettivo per –come scrive Giorgio Verzotti in catalogo– “ricostruire virtualmente, tramite la memoria, la continuità nel mezzo di ciò che sembra discontinuo”. E che va a collocarsi, pertanto, nella mente di chi guarda.
Ma la vista non è l’unico senso invitato a mettersi in gioco, perché l’elemento-colore che funge da legante, al pari della colla o del nastro adesivo, contiene in sé un’altra dote. Quella di provocare una percezione di tipo tattile, alla quale abbandonarsi e dalla quale lasciarsi concupire. Vuoi per la morbidezza del pigmento suggerita dai toni pastello, vuoi per l’estrema libertà trasmessa dalla stesura delle pennellate. Una pittura che si abbatte con dolcezza su mobili, tappeti e attrezzi da cucina invischiandoli in una materia pastosa che li preserva e al tempo stesso ne esalta la concretezza delle forme.
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