Un obice ruota incessantemente su se stesso, disegnando traiettorie ripetitive dal sapore vagamente rituale. Il suo movimento accompagna il racconto privato di un milite ignoto caduto durante la Prima Guerra Mondiale e imprime alla narrazione quel ritmo circolare, scandito dal tempo del ricordo che il video Il tempo che serve Parte Prima di Marco Vaglieri condivide con l’intero progetto espositivo della sua seconda personale ospitata dagli spazi di Luigi Franco Arte Contemporanea.
Sin dalla prima sala emerge infatti la regola scelta per
Ed è proprio fra le rovine e i reperti raffigurati nel ciclo di istantanee che Vaglieri completa l’equazione fra cronologia dell’artista e passato collettivo: “il mio tempo intimo dà voce a tutti i tempi”, afferma il narratore della prima parte di Il tempo che serve. La sua dichiarazione di polisemia diventa evidente nell’ultimo modulo della trilogia video, segnato dal montaggio parallelo di antiche fotografie di trincee e soldati con il vagabondaggio di Vaglieri nei luoghi della memoria e nei paesaggi che delimitano la geografia della Prima Guerra Mondiale. La durata del suo cammino equivale, dunque, al tempo che serve per pensare all’uomo e questo è, suggerisce Vaglieri, “l’unico tempo interamente nostro”. Dall’oscillazione fra passato privato e commemorazione collettiva, Vaglieri ricava un glossario personale dell’esperienza bellica.
“Costretta a distruggere per ricostruire”, la storiografia intima di Vaglieri prosegue con il silenzio di un dittico in cui all’immagine non corrisponde testo e per poi concludersi con il potere arcaicizzante della serie di acquerelli Story board, il cui sguardo contemplativo anticipa i paesaggi sfigurati, incisi dalle trincee e dai bombardamenti del video, non ancora realizzato, Il tempo che serve Seconda Parte.
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federica martini
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