“Gli Dei si trasformano per conseguire i fini de’ loro amori”, per dirla con il Vasari. E così, come narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, osserviamo Giove tramutarsi in toro, in pioggia dorata, in cigno. Per rapire, per sedurre, per amare. È un mondo ambiguo e voluttuoso quello delle divinità greche e romane in rassegna al Museo degli Argenti, che presenta una mostra sul rapporto tra mitologia ed erotismo nell’arte e nella cultura dall’antichità fino al ‘700.
Ideata dalla direttrice Ornella Casazza con “l’intento di valorizzare la prestigiosa raccolta di cammei e intagli custoditi tra le collezioni del museo”, e curata dalla stessa Casazza con Antonio Paolucci, Giuseppe Cantelli e Riccardo Pennaioli, l’esposizione si sviluppa tra gli incantevoli affreschi seicenteschi delle sale medicee. Sono 213 le opere esposte, tra dipinti, sculture, pitture murali, arazzi, gioielli, stampe, avori, porcellane, gemme e monete. Opere che permettono non solo di comparare le diverse forme artistiche sul tema, ma anche di sbirciare nella sfera privata delle élite culturali e sociali, che furono testimoni d’eccezione del rinnovato interesse per le divinità classiche durante il Rinascimento. Non a caso, alla destra dell’ingresso, ci si imbatte direttamente nella Camera da letto, dove attorno a una lettiera a colonne del XVI secolo, si notano gli altri elementi (come il cassone e i gioielli) che ricreano un ambiente intimo, segnato proprio dai continui riferimenti mitologici (ed erotici). Il percorso viene quindi strutturato su criteri tematici, grazie a un allestimento raffinato e quasi sempre efficace. Fanno eccezione i corridoi esterni della sala affrescata da Giovanni di San Giovanni, troppo stretti per assicurare la necessaria libertà di movimento al visitatore, spesso impossibilitato ad arretrare sufficientemente di fronte ad alcune opere (come quelle del Tiepolo).
Un problema che non si avverte invece nell’area interna della sala, dove si possono confrontare, con un solo colpo d’occhio, le diverse rappresentazioni di Leda e il cigno (una scultura romana del II secolo d.C., un Tintoretto, 1550, e un Luca Giordano, 1670).
La Sala di Stipo accoglie il visitatore con un Fallo leonino (arte romana, I-II secolo d.C.), cui fanno compagnia lucerne e statuine itifalliche, che non mancano di suscitare sorrisini maliziosi tra i visitatori. Sala dopo sala, variano i temi e variano anche i colori dominanti dell’allestimento, associati ai quattro elementi. E così dopo l’azzurro-aria e il crema-terra, arriva il rosso-fuoco a fare da cornice all’Ermafrodito e al tema dell’omosessualità. Nell’ultima sala, invece, sullo sfondo delle opere di Rubens, Pietro Liberi e Luca Cambiaso, torna il verde pallido (già incontrato nella “Camera da letto”), ora pronto a richiamare l’elemento acqua. Quasi a voler raffreddare i bollenti spiriti dei visitatori più sensibili, ormai abbondantemente sollecitati.
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