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C’è da dire che di Amendola si subisce il fascino per quel suo modo particolare di tagliare, in scorci improvvisi, le immagini del lavoro di alcuni tra i più grandi artisti dal Rinascimento a oggi. Ritagli senza tempo che avvincono il fruitore attraverso una morbida, sincera espressività del chiaro-scuro”. Con queste parole di Carlo Frittelli si apre il catalogo della mostra fotografica di
Aurelio Amendola nella galleria fiorentina. Una corposa selezione che si divide in due serie: la prima dedicata a
Michelangelo, l’altra a
Burri. Due distinte raccolte che, estremamente distanti all’apparenza, si uniscono nel talento e nell’interpretazione del fotografo, generando a sua volta opere nuove, ugualmente lontane dai soggetti che rappresentano.
Due fili invisibili conducono quindi da una serie all’altra, da un lato l’occhio indagatore e scopritore di Amendola, dall’altra la forza creativa dell’artista, il
foco -quello di cui parla Michelangelo nel sonetto 97 delle sue
Rime e da cui prende il titolo la mostra- che
rinnova e infiamma l’artista. Lo stesso fuoco adoperato dall’amico Burri per le sue combustioni e che Amendola immortala in una serie di scatti, allestiti su una parete frontale all’ingresso della galleria, che all’occhio dell’osservatore si trasforma in sequenza filmica.
Attraverso la scoperta di differenti prospettive, l’obiettivo del fotografo rimanda l’intensità dei gesti dell’artista di Città di Castello; l’immagine che ne nasce viene a assumere quei caratteri di originalità che rendono Amendola artista invece che osservatore. Di rimando immediato lo sfrigolio del cellotex insieme al rumore della fiamma che lo forgia, e lo sguardo dell’artista intento a contenere il tutto. La creazione attraverso la distruzione o, per dirla come Michelangelo, la
sottrazione.
Ugualmente, la serie dedicata a Buonarroti, presentando particolari dei geniali marmi rinascimentali tra sfondi neri e misteriosi chiaroscuri, ne abolisce i contesti originali, superandoli verso un piano sia sequenziale che attuale. Attraverso la sua interpretazione, le opere si improvvisano e reinventano, si stringono i rapporti tra oggetto ripreso, soggetto che riprende e visitatore. La macchina fotografica perde il punto di vista distante e oggettivo che la contraddistingue come mezzo di osservazione, per regalare allo spettatore moderne visioni empaticamente cariche di nuovo stupore e bellezza.
Gli scatti indagatori, esaltando particolari altrimenti nascosti, prevaricano il reale scarto secolare che separa i due artisti, per ricollocarli su un ideale piano atemporale.