Tecnica, capitalismo e globalizzazione sono alcuni dei nodi di quel groviglio di contraddizioni che è l’Occidente.
Shilpa Gupta (Mumbai, 1976) ne affronta le ricadute sull’Oriente, rivolgendosi all’individuo e a desideri e speranze declinati attraverso l’influenza dei media.
L’uomo di Shilpa è un essere omologato, come quello raffigurato nella serie di code infinite di
100 Queues, immortalate da fotografie avvolte intorno a cento cilindri mossi da piccoli motori, a far perdere la percezione di chi stia prima e chi dopo. Ma è soprattutto con
Tryst with Destiny e
I have Many Dreams che l’artista affronta gli effetti della mondializzazione sulla vita quotidiana. Il primo lavoro riprende, fin dal titolo, il discorso d’indipendenza del primo Presidente indiano, isolandone le speranze in un microfono solitario, abbandonato in un angolo, da cui proviene la voce dell’artista che lo canta e recita.
I have many dreams risponde idealmente a quell’inascoltato discorso di emancipazione: quattro fotografie ritraggono alcune bambine e delle cuffie ne lasciano ascoltare le voci. Ciascuna di loro, intervistata, immagina il proprio futuro attraverso limitate possibilità di realizzazione, come artista, pop star, giornalista, designer, rivelando speranze e desideri stereotipati, pescati da un calderone di sogni anonimi pronti all’uso, diffusi dai media nel consenso generalizzato.
Anche
Michelangelo Pistoletto (Biella, 1933) riflette sulle contraddizioni del nostro tempo, teorizzando una possibile risposta nell’avvento di un nuovo umanesimo e di un
Terzo Paradiso, necessaria utopia di un incontro che eviti l’allargarsi della ferita che divide uomo e natura.
In galleria, oltre alle opere che raffigurano il “
Nuovo Segno d’Infinito” del
Terzo Paradiso, sono in mostra opere del ciclo
Segno Arte, tra cui una serie di quattro arazzi, che ne indica la genesi leonardesca, e recenti lavori su superfici specchianti, come le eleganti simmetrie della serie
Black and Light.
Al centro della platea della galleria è collocato
Il tempo del giudizio, la grande istallazione che dà il titolo alla mostra. Qui gli specchi diventano strumento d’introspezione, grazie al quale cristianesimo, ebraismo, buddismo e islamismo, rispecchiandosi nei simboli della preghiera o del proprio credo, sono messi a confronto con loro stessi. Come a riconoscerne weberianamente la responsabilità del disincanto del mondo e la necessità di un loro contributo alla riconciliazione del
Terzo Paradiso.
Nell’ampia platea, una parete ospita un wall drawing di
Sol LeWitt (Hartford, 1928 – New York, 2007), concepito nel 2004 per la galleria. Moduli dai diversi colori si rincorrono sulla parete, accelerando da destra a sinistra lungo fughe in diagonale. Un semplice e affascinante incastro di forme e colori, a creare spazi effimeri e prospettive illusorie, giusto per la durata della mostra. Per poi abbandonare noi comuni mortali e tornare nell’Iperuranio nel quale sono stati concepiti.