Luca Rossi

di - 13 Maggio 2017
Premesso che il Padiglione Italia 2017 è il miglior padiglione italiano da 10 anni a questa parte, la prima impressione non è stata per me positiva. Forse perché avevo ancora negli occhi gli eccessi di Damien Hirst, e subito sembrava di stare sul set della nuova serie Netflix, un misto tra Westworld e Virus Letale. Un tendone trasparente, come quello che usano per le situazioni di emergenza nei film di fantascienza, è installato in un camerone grande e scuro. Intorno al tendone una fabbrica-laboratorio di corpi, realizzati con una gelatina che solidifica e poi deperisce in muffe. I corpi sono quelli di Cristi senza croce che successivamente vengono “cotti” con un procedimento inverso all’idratazione. Il risultato sono frammenti sfilati di corpi umani, muffe erose, frammenti filiformi che potremo ritrovare sotto la lava di Pompei. La sensazione è quella di uno strano obitorio. Una cosa che avrebbe potuto fare anche Damien Hirst qualche anno fa.
Roberto Cuoghi si ispira ad un libro medioevale che integra il Cristianesimo sostenendo sostanzialmente che il giorno del Giudizio Universale non ci servirà quello che abbiamo detto ma quello che abbiamo fatto, in quanto Cristiani. L’artista, nell’esercizio ascetico di ricreare la smorfia di dolore di Cristo, mette in mostra una fabbrica funzionante, un “processo” piuttosto che tante opere d’arte definite, installate e permanenti. Corpi che, a loro volta, sono destinati ad essere in transizione in un processo di deperimento che continuerà anche dopo la mostra. Va sottolineato inoltre che Cuoghi non stampa solo corpi ma anche “denaro” sotto forma di opere d’arte, che dopo la Biennale potranno essere vendute a un prezzo unitario molto più alto del loro costo (artcoin).
Una produzione “autistica” quella di Cuoghi e che l’artista stesso definisce “materialismo tecnologico”. Qualcosa che restituisce in parte il senso del nostro tempo, posto fra precarietà e deperibilità della condizione umana, spiritualità posticcia e grandi conquiste tecnologiche. Il risultato sono corpi e reperti mummificati che sembrano essere stati rinvenuti da qualche campo archeologico. Ancora una volta troviamo un’artista che, come fosse un “Giovane Indiana Jones”, sembra costretto ad una “retorica passatista” per essere accettato da un “Paese per vecchi” e per “giovani già vecchi”. Il processo, la modalità indicata da Cuoghi, soprattutto nei suoi risultati, non riesce a restituire uno sguardo costruttivo e propositivo rispetto la nostra contemporaneità. Quello che rimane è un nichilismo compiaciuto che si ritrova a contemplare se stesso.
Il problema del Padiglione Italia però non è Cuoghi, ma è rappresentato dagli altri due interventi. L’installazione di Giorgio Andreotta Calò e il video di Adelita Husni-Bey portano l’intervento di Roberto Cuoghi, incentrato sull’idea di processo, a tornare opera e installazione permanente. Solo in un secondo momento ho capito che il Padiglione Italia andava dedicato completamente a Roberto Cuoghi, non perché gli altri due interventi siano poco interessanti, ma proprio per dare a Cuoghi stesso il giusto respiro. Continuando la visita, e quindi in contraddizione con l’idea di laboratorio che abbiamo appena lasciato, troviamo uno dei tanti video tipici delle mostre di arte contemporanea: ragazzi newyorkesi che parlano in inglese di tarocchi e del loro significato, mischiando misticismo da cameretta e gergo giovanile. Il padiglione si chiude con l’installazione di Giorgio Andreotta Calò che mette una vasca d’acqua, alta 30 cm, sotto il soffitto del padiglione. Il gioco di specchi crea una super mansarda sotto e sopra. Senza entrare troppo nel merito degli ultimi due interventi, essi appaiono accessori rispetto le giuste ambizioni di Cuoghi. Voto complessivo: 5.
Sopra: Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo, 2017, Installation view at Padiglione Italia, Work in progress, 9 maggio 2017, 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Photo: Roberto Marossi

Visualizza commenti

  • Nichilismo fine a se stesso che non aggiunge e non toglie niente di nuovo a ciò che siamo. Praticamente Art Park a Venezia.

  • La coerenza con il laboratorio stile Frankestein di Cuoghi voleva che si dedicasse a Cuoghi tutto il Padiglione. Il video di Adelita appare troppo accessorio, come anche il tema....a parte i tarocchi di magico ho visto poco dentro al padiglione Italia. Calò crea, da oscure fondamenta, una sorta di arca di Noè....astronave....il titolo Senza titolo (la fine del mondo)...come dire se proprio vogliamo ve volgi dare na chiave de lettura. Quasi uno slancio narrativo in un lavoro spesso chiuso su se stesso e cupo. Troppo.

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