Prima Materia. Un altro colpo a segno per Pinault

di - 28 Maggio 2013
Se non fossero a cadenze così diradate potremmo quasi definirle di “ordinaria bellezza”. Ma visto che Monsieur Pinault ci regala mostre annuali, si è invece nell’ambito di un’epifania. Che ancora una volta, anche in occasione di questa 55esima Biennale, non tradisce le aspettative. “Prima Materia”, a cura di Caroline Bourgeois e Michael Govan, è infatti un’altra esposizione eccezionale, negli spazi di Punta della Dogana. Una mostra che parla di dialogo, sia tra artisti che tra spazio e opere, non dimenticando di svelare quelle che sono provenienze geografiche molto diverse, che vengono però messe in scena con un’ineffabile armonia.
Il primo esempio grandioso è nella grande sala dove un gruppo di artisti concettuali giapponesi, appartenenti al collettivo Mono-Ha, sono messi in relazione con i nostri Poveristi: ne esce una “conversazione” tra Alighiero Boetti, Lee Ufan e Kishio Suga, Pistoletto, Penone, Mario Merz insieme a Susumu Koshimizu, in un dialogo equilibrato e magico, dove per un attimo pare che tutti questi grandi Maestri provengano dallo stesso ambiente, mentre si sta parlando da un lato di Torino e dall’altro dell’Estremo Oriente.
Aprono la mostra il video Marquee di Philippe Parreno, e a seguire un pezzo esclusivamente sonoro, Raining (Sound Piece), di Dominique Gonzalez-Foerster: perché oltre ad un dialogo tra nazioni e opere c’è un altro dialogo, quello tra materiali.
É impressionante la disinvoltura con cui si passa dalle installazioni, come quella di Lizzie Fitch & Ryan Trecartin, giovanissimi artisti Los Angeles based, alla pittura, con esempi magistrali dati da Marlen Dumas, Llyn Foulkes e Mark Grotjahn.
Il successivo passaggio è quello dalla pittura figurativa all’immateriale, con una stanza commovente dedicata a Roman Opalka, in cui si sente la voce dell’artista che in quattro Détail declina numeri come una preghiera.
Ancora sul meditavivo con Roni Horn a cui è dedicato l’ambiente di Well and Truly, 2009-2010: si tratta di un’installazione di contenitori in vetro pieni di sola acqua, che divengono qui preziosissimi, zen.
Arriva poi il “colpo basso” con la crocifissione di Adel Abdessemed, dove i Cristi non hanno il supporto del martirio, ma sono appesi direttamente al muro, in dimensione umana, a turbare e a provocare lo sguardo, seguendo il fil di ferro che compone la loro fisicità.
Quasi in ultimo un dialogo sublime tra un piccolo Achrome del 1962, firmato da Piero Manzoni, e un quadro concettuale di Bridget Riley mentre, alla voce “contrasto”, si materializza il torrino completamente ricostruito come involucro dorato per James Lee Byars, installazione del 2007 intitolata proprio Byars is Elephant, a confronto con un video molto secco di Robert Barry e una splendida sala di teschi di cristallo messi sotto teca, questi di Sherrie Levine. E poi ancora David Hammons, Thomas Shütte, e il cubo centrale con i due enormi dipinti ad olio del cinese Zeng Fanzhi, primo artista a cui è stato assegnato il nuovo “site specific” di Punta della Dogana. Che declina in tutti i modi, dal silenzio alla passione, dalla carne allo schermo, una materia perfetta.

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