Cream – Creativity and Research in Arts and Media è un
laboratorio estetico-concettuale di analisi e reazione alle fratture di senso
della contemporaneità. Con
The Cream Society, nell’anno della sfolgorante
global
crisis, il gruppo
affronta il tema
Crisi e creatività.
La mostra, curata da Carlo Sala e Gloria Vallese, è un
percorso variegato di forme e tensioni che scaturisce dall’eterogeneità degli
autori. Già nel giardino esterno – dove cemento, erba e acqua disegnano un ambito
di razionalismo organico – ci s’imbatte in
Galleggiare, leggiadra isola-installazione
site
specific in cui
Cristina Treppo gioca con lo spazio liquido quale
cornice d’isolamento.
Si penetra quindi nello spazio esedra, oggi
casamatta critica. Al primo livello, il
visitatore è accolto da
Sun Being, opera di
Martin-Emilian Balint. Un nugolo di rossi poliedri di
carta genera un giocoso cosmo sospeso, la geometria dei cui elementi inerisce a
una ricerca intellettuale di senso e matrici. Nello stesso ambiente trovano
posto le tele di
Neboiša Despotović. Il loro equilibrio si compie nel coaugulo tra
un’immagine-sorgente e la sovrapposizione di un filtro personale: così sorgono
le strutture di una nuova stratigrafia pittorica.
Nella sala successiva,
In My Flesh, installazione di
Dania Zanotto. Lo spazio è quello di una
cucina-museo. In una sorta di metonimia estetica, i contenuti si fanno
contenitori vetrificati e l’empiria viene concettualizzata.
In
Kid’s Bed,
Room#1 e
Honey, Cristina Treppo declina il tema
delle stanze quali ri-composizioni di set esistenziali, tracce vivide e indizi
di vita, della storia, di un’infanzia.
New God, di
Giuseppe Vigolo, è una riflessione sarcastica
sulla forza effimera dei nuovi eroi portati in dote da tecnologia e media. Il robot
è enorme, ma realizzato con deperibilissimo cartone.
Olokh, installazione di Dania Zanotto, ricorda un mare interno.
Corda, sabbia, bitumi e muffe: l’arabesca palude miasmatica alimenta l’olio di
una nera coltura infera. Accanto si trova
Portland di
Barbara Taboni, opera al tempo stesso brutale e
delicata. Un’orditura di puntelli a croce blocca i candidi calchi in cemento,
parti smembrate di un corpo in frantumi. Tubi e corpi spingono, e questo
composito Atlante fonda un nuovo mondo ri-sorgente.
Nella piccola stanza attigua c’è
Downtown di
Giacomo Roccon. La scultura in resina
rappresenta un uomo. Seduto, coperto d’insetti, è volto verso un angolo muto.
Una sconfinata solitudine, inestirpabile, urla silenziosamente, saturando il
locale. Con la leggerezza della trina metallica e un’ironia
liberty opera invece
Resi Girardello. I microrganismi di
Knitting
nets, come le
fotografie di
Qualcosa di mia nonna, giocano a replicare coattivamente un mondo, naturale o
storico, ponendosi come
exempla e meccanismi di stimolazione della consapevolezza.