L’automobile fu per i futuristi la metafora della vita moderna. Lanciata a gran velocità sulla strada del futuro, divenne il simbolo del progresso che avanza, sbriciolando il passato alle sue spalle. “
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di samostracia” (Filippo Tommaso Marinetti,
Manifesto del Futurismo).
E l’automobile – acquisita nel frattempo la declinazione al femminile – è ancora al centro della vita contemporanea, non solo come privilegiato, seppur altamente inquinante, mezzo di locomozione, ma anche come
status symbol e come protagonista di spot pubblicitari d’avanguardia. Non è un caso che la maggior parte degli spot che dimostrano un particolare grado di innovazione creativa e, di conseguenza, uno stretto rapporto con l’arte contemporanea, reclamizzino come prodotto un’automobile.
Nello spot di New Clio, un neonato si aggira per una grande città (Barcellona, per l’esattezza) e durante la passeggiata cresce velocemente non senza strizzare l’occhio a una scultura di
Alexander Calder. Il futuro nello spot viene raggiunto in pochi secondi, il ritmo è accelerato e contratto. Diventando adolescente e poi adulto, il protagonista si muove per la metropoli-giungla come un
jumper, un funambolo della cosiddetta
parkour, fino a raggiungere un sottopassaggio nel quale avviene la sua trasformazione nell’auto reclamizzata. Nel processo di metamorfosi è possibile scorgere nel corpo umano protuberanze e allungamenti, generati come in una galleria del vento, del tutto analoghi a quelli presenti su
Forme uniche nella continuità dello spazio di
Umberto Boccioni. Lo sviluppo delle teorie avanguardiste, normalizzato attraverso tecnologie più consone alla loro rappresentazione, diventa prodotto di massa e assume perfino una matura commerciale.
L’enfasi progressista si spalmava, allora come oggi, sui cambiamenti di una metropoli palpitante, sempre più popolosa, sempre meno spaziosa e dove l’architettura si sposa, non senza difficoltà, alla più intricata urbanistica. Nello spot di Volkswagen Tiguan, il suv percorre alcune strade di una città in continuo mutamento: dai ciottoli di una piazza che si aprono come tessere di un mosaico facendo spazio a un giardino, a una serie di palazzi che si srotolano e si ricompongono secondo lo schema dettato dai propri moduli costruttivi. Gli edifici in questa panoramica scalpitano, dimostrando una tensione e un battito organico. Sembrano figli legittimi di quell’architettura megastrutturale degli anni ’60, che aveva portato alla ribalta gruppi di ricerca come
Archigram,
Archizoom o
Superstudio. L’effetto che ne risulta si appella all’aggregazione composita e al dinamismo meccanico dei progetti costruttivisti di
Tatlin. La continuità strutturale e la sinuosità progettuale degli edifici con il paesaggio urbano circostante viene registrata nello stesso modo nei progetti dell’
Atelier Van Lieshout, che coniugando forma biomorfa e contenuto ergonomico rappresentano la degna attuazione dello slogan
The city never rests.
L’elogio della macchina come metafora del progresso, la celebrazione della città come organismo vivente non sono universalmente condivisi come la visione unica del futuro. Fantascienza e cyberpunk hanno puntato il dito contro tali trasposizioni positiviste, proponendo a contraltare mondi in cui l’evoluzione della macchina e il suo fondersi con l’umano danno alla luce mostri e creature deviate. Per fortuna, lo spot di Citroën C4 del 2004 mostra – in anticipo di qualche anno sulla trasposizione cinematografica di
Transformers – un’auto impazzita che, ricompostasi in un robot antropomorfo, balla un ritmo acido e sincopato. Scongiurando, una volta tanto, il terribile incubo della rivolta delle macchine.