Conclusa la retrospettiva di Calzolari e in attesa dell’apertura dell’antologica di Botto & Bruno, al Mamac è ora di scena Jan Fabre (Anversa 1958). Si tratta di un’esposizione che segnerà una tappa importante nella bibliografia del belga, poiché copre un arco di tempo che va dal 1977 ai progress in corso. Anche se limitata a sculture e installazioni, dunque, non è affatto limitante. D’altronde, cogliere ogni aspetto della produzione fabriana vorrebbe dire allestire qualcosa di soffocante.
L’impressionante apertura del percorso espositivo – assai curato dall’artista, così come l’attesissimo catalogo – è affidata a Hé, wat een plezierige zottigheid! (1988), video e installazione di vasche da bagno “marmorizzate” con tecnica maniacale, cioè con l’inchiostro di penne a sfera Bic. La dominante della mostra è certamente una ossessività espressa in massimo grado nella quantità spropositata di scarabei e altri insetti che Fabre utilizza nelle maniere più disparate. L’unica costante è l’odore acre che proviene dai loro corpi in putrefazione interrotta. Nelle quattro grandi teche di
Fra gli altri “materiali” organici, merita un cenno Brugge 3003 (Monnik met beenderen) (2002), costituito da “fettine” d’ossa, il cui midollo restituisce un effetto spugnoso che contrasta con l’aggressività del monaco a grandezza iper-naturale. Fra tassidermie disturbanti (Doodskist, 2001, in cui un cigno deve trascinare in volo la propria bara) e colonne vertebrali di degasiana memoria (“Vermis dorsualis” en duivelmaskers, 2002, composizione dorata in polvere d’ossa), il percorso raggiunge l’apice anatomo-patologico in uno dei corridoi di raccordo del museo. Il work in progress Wetskelder (1979-) è un’installazione che ricopre di mensole le pareti dello spazio oblungo e, secondo un ordine imperscrutabile, su di esse sono allineati vasetti
Qui si espone l’impossibilità strutturale di ogni lavoro del lutto. E l’inaggirabile importanza della memoria selettiva o, per vederla al rovescio, dell’oblìo attivo. Imperdibile.
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