Un tema davvero senza tempo quello scelto quest’anno dal Museo della Fotografia di Salonicco per Photosynkyria: Traces, the object and the past. Alla classicità implicita nel soggetto, che sembra compiacere il Paese ospitante, hanno risposto gli artisti scelti dal curatore Hercules Papaioannou prendendo due strade solo apparentemente antinomiche: interpretando il passato remoto dell’archeologia oppure i residui, le tracce, del quotidiano; a volte ricercando una difficile obiettività documentaria, a volte cogliendo gli echi di una memoria individuale o collettiva.
Sono una trentina le mostre personali inaugurate a metà febbraio, affiancate da una collettiva sul tema Archeologies curata da John Stathatos presso il Museo di Cultura Bizantina , e da una selezione di opere della collezione permanente del Museo della Fotografia.
Gli italiani Gabriele Basilico (Milano, 1944) e Vasco Ascolini (Reggio Emilia, 1937) muovono dalla prospettiva archeologica. Basilico offre una visione monumentale degli spazi archeologici di Pompei, Roma, e della Francia meridionale. Spesso contaminate da architetture contemporanee, queste rovine ci si consegnano misteriosamente inanimate, quasi si trattasse di una documentazione fatta all’alba del fatidico giorno dopo. Vasco Ascolini, la cui personale è ospitata da un suggestivo edificio un tempo adibito a moschea, propone una lettura più carica della presenza del fotografo, autore di associazioni imprevedibili e formalmente complesse, pur nel rispetto della classicità ritratta. Spostando l’accento dal monumento architettonico alla statuaria antica, in Ascolini il tema dell’oggetto inanimato si confronta ambiguamente con le sembianze umane catturate nelle forme dell’ideale classico. Anche Viktor Koen (Salonicco, 1967) non rinuncia alla classicità, ma preferisce un riferimento meno prevedibile, e sceglie il tema della vanitas cara alla pittura del 17esimo secolo, che egli reinterpreta componendo immagini complesse a partire da oggetti trovati in un’operazione che ne scandaglia da una parte i pregi materici dall’altra le forti valenze simboliche. Non distante per le tematiche, ma diversissimo per impronta e accenti, il lavoro di Barbara Crane (Chicago, 1928) che parla della vita e della morte, inscritte in un ciclo doloroso e inevitabile, attraverso le immagini isolate su fondo nero di uccelli, topi, animaletti del bosco ritratti nell’immobilità della morte, che avviene sempre altrove, lontano dagli occhi dell’uomo arroccato nella città. Solo Chema Madoz (Madrid, 1958), tra i tanti artisti presenti, propone un lavoro ironicamente concettuale, dove oggetti e concetti si manifestano attraverso montaggi imprevedibili e divertenti, realizzati con grande perizia tecnica.
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laura chiari
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