Chen Zhen e l’arte dell’esaminare il mondo

di - 6 Febbraio 2021

Chen Zhen è stato tra i primi artisti cinesi a sostituire la pittura con installazioni e sculture di assemblaggi di oggetti trovati e rigenerati come letti, sedie, tavoli, culle, elettrodomestici, piccoli Buddha, rose di plastica, sterco, binari, immagini di discariche simili a vedute montane, utensili e altri manufatti, attraverso un processo artistico fatto di inedite connessioni e contaminazioni tra cultura orientale e occidentale, spiritualità e consumismo, tradizione e tecnologia, ascetismo e capitalismo.
L’impatto irruento con la cultura e le avanguardie artistiche occidentali, avviene nel 1986, quando Chen Zhen si trasferisce a Parigi da Shanghai, dove è nato nel 1955 e cresciuto da una famigli di medici durante la rivoluzione culturale in Cina; l’artista scelse la via dell’esilio a una continua censura e repressione politica. Nel 1973 consegue la laurea alla Shanghai School of Fine Arts and Crafts e, cinque anni dopo, si specializza in scenografia al Drama Institute della megalopoli cinese, dove nel 1982 diviene professore. A Parigi frequenta prima l’Ecole Nationale Superieure des Beaux-Arts, nel 1989 approfondisce gli studi all’Istitut des Hautes Etudes en Arts Plastique, dove lavora come assistente dal 1993.

Scomparso prematuramente nel 2000, dopo una malattia incurabile, Chen Zhen ricompare al Pirelli Hangar Bicocca con una retrospettiva (la seconda a Milano dopo quella del 2003 al Pac, a cura di Jean-Hubert Martin) composta da ventiquattro opere di una attualità sconvolgente, inedite “nature morte” contemporanee, sintesi poetiche e meditative da lui definite “sculture aperte”. Il suo lavoro nasce dal dialogo e non dalla contrapposizione tra cultura orientale e occidentale, all’insegna di un linguaggio multiculturale, originale e pionieristico maturato negli anni Novanta, quando Harald Szeemann (1933-2005), indimenticabile curatore della 49ma Esposizione della Biennale, nel 1999, lo invita ad esporre tra i protagonisti dell’avanguardia cinese.
Il titolo non casuale dell’esposizione “Short-circuits”, cortocircuiti, curata da Vicente Todolì con la preziosa collaborazione della moglie e collaboratrice dell’artista Xu Min, contiene ciò che la mostra non cronologica promette nella scelta dell’allestimento da osservare con attenzione. Il percorso espositivo procede per contrappunti tematici con opere realizzate negli ultimi dieci anni di vita dell’artista in bilico tra poetica e critica sociale, che rispecchiano il suo immaginario visionario, mescolando insieme, come colori sulla tela, l’eredità di Marcel Duchamp, Joseph Beyus, l’Arte Povera, l’arte concettuale occidentale e le connessioni e contraddizioni tra artificiale e naturale. Residenza, viaggiare in altri luoghi per cercare di comprendere le diverse culture; Risonanza, trovare una sorte di sincronia con la cultura locale e Resistenza alle influenze della nuova cultura assimilata, sono le tre “r”, inclusa la quarta, di Relazione, che le sue opere “aperte” mostrano e che portano lo spettatore a trasformarsi in componente attiva attraverso lo sguardo. Davanti alle opere di Chen Zhen ci poniamo domande sul ruolo dell’arte come dispositivo del pensiero, “ponte” tra diverse culture e realtà, cura spirituale e purificatoria.

La mostra è concepita come un paesaggio sinestetico universale senza frontiere, che sembra riecheggiare progetti “sociali” condivisi dall’artista con i bambini di Salvador de Bahia o gli abitanti dei quartieri di Huston.  È una esposizione di oggetti in scena in cerca di associazioni simboliche e culturali, complessa ma semplice nella tensione formale armonica ed elegante, in cui ogni singolo oggetto corrisponde al tutto, che richiede tempo di meditazione sulle questioni di politica internazionale sottese filtrate da una visione più intima e privata della sua vita contrassegnata dalla malattia autoimmune, una forma di anemia emolitica comparsa a 25 anni. Contaminazione simbolica e culturale sono i cortocircuiti che si svolgono secondo un ritmo fluido, leggero, tipicamente orientale. Sono opere che smaterializzano il peso della cultura consumistica occidentale. Il concetto di malattia, e la diversità di approccio della medicina orientale e occidentale, è alla base del lavoro dell’artista come presupposto per investigare la percezione del tempo comprensivo di “transesperienze”, termine coniato da Chen Zhen che rispecchia il suo modus operandi, per descrivere il suo desiderio rigenerante di immergersi nella vita e identificarsi con gli altri. Chen Zen ha dichiarato: “Come artista, il mio sogno è di diventare un medico. Fare arte ha che fare con il guardare se stessi, esaminare se stessi e come si vede il mondo”.

Il suo mondo multiculturale, globale, è quello che stiamo vivendo, contraddittorio come rivela l’opera Purification Room (2000), una stanza apocalittica le cui pareti e tutti gli oggetti in essa contenuti sono ricoperti da uno stato di argilla monocroma. Da notare è il processo di sedimentazione: Chen Zhen impiega attraverso un materiale organico com’è l’argilla, sostanza “curativa” in grado di purificare il mondo e di preservare il presente, che da un lato sembra annullare l’energia vitale e di crescita, ma dall’altro valorizza gli elementi essenziali della vita stessa. Quest’opera è l’ultima prima della sua prematura scomparsa a Parigi, include una serie di lavori realizzati con lo stesso procedimento dal 1991 e sembra quasi ricordarci che siamo terra, polvere; una piccola componente del tutto in cui collettivo e individuale d’intrecciano. Tra le altre opere Round Table (1995), esposta originariamente all’esterno del Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, presenta un grande tavolo rotondo di legno al centro del quale sono incisi alcuni basilari temi della Dichiarazione universale dei diritti umani. A rappresentare gli Stati membri, 29 sedie di tipologie e provenienza diversi sono sospesi intorno al piano d’appoggio. Questi oggetti decontestualizzati perdono la loro funzione originaria per assumere un valore metaforico, aprono una riflessione, centrale nella poetica dell’artista, sulla necessità di inclusione delle differenze. Il tavolo circolare rimanda al tradizionale pasto festivo cinese, che sottintende unità, armonia e dialogo e si riconnette alle “tavole rotonde” internazionali, organizzate dagli stati che dovrebbero condividere idee di libertà, uguaglianza, fratellanza e giustizia sociale, utopie sempre contemporanee per un futuro migliore soprattutto nell’epoca Covid 19 che ha smascherato vizi, egoismi, individualismi, fragilità, contraddizioni tra Paesi dominanti. Le sue opere prefigurano cause ed effetti della globalizzazione post coloniale ancora di matrice imperialista e capitalista. La via per Chen Zhen è nello scambio, nella condivisione del valore della comunità transnazionale, dove si discutono trattative per un benessere diffuso. Chiude il percorso espositivo il giardino meditativo Jardin–Lavoir (2000), composto da undici letti trasformati in anomale vasche d’acqua ricolme di oggetti quotidiani: libri, quotidiani, vecchi computer o televisori, abiti, scarpe, vestiti usati, utensili da cucina, giocattoli da bambini, e altre cose che rappresentano la nostra società, purificati da un getto d’acqua sgorgante da uno stelo di metallo. Letto, malattia, cura, sonno, veglia, sosta, trasformati in contenitori degli oggetti che produciamo nel Cubo Pirelli assumono un valore simbolico e poetico, enigmi meditativi difficili da dimenticare. Tutti gli artisti ci lasciano un segno; Chen Zhen con le sue opere ci lascia il sogno di un mondo armonico universale purificato, e per questo è e sarà sempre contemporaneo.

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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