La Biennale del 1974 rivive in Cile, con il progetto di Eugenio Tibaldi e Patrick Hamilton

di - 18 Giugno 2025

La Biennale di Venezia del 1974 fu talmente particolare da non avere assegnato alcun numero romano. Non fu stampato alcun catalogo, sostituito da fascicoli fotocopiati che riguardavano ciascuna mostra o spettacolo. La manifestazione uscì dai Giardini e invase Palazzo Ducale. Fu clamorosa e rivoluzionaria la decisione di Carlo Ripa di Meana, neo-eletto Presidente della Biennale di Venezia, di dedicare l’intera edizione della Biennale di quell’anno – la prima dopo l’interruzione del 1968 – al Cile.

Meno di un anno prima, l’11 settembre del 1973, il generale Augusto Pinochet aveva attuato un golpe ai danni del governo socialista di Salvador Allende, il Presidente del Cile democraticamente eletto. Hortensia Allende, vedova del presidente assassinato, raggiunse Venezia per inaugurare la Biennale e la manifestazione venne trasmessa in filodiffusione da Palazzo Ducale a Piazza San Marco. Promossa dall’Istituto Italiano di Cultura di Santiago, Quimeras è una mostra generata dal dialogo tra un artista italiano, Eugenio Tibaldi, e un artista cileno, Patrick Hamilton, per celebrare i 50 anni dalla Biennale del 1974. A cura di Eugenio Viola e in esposizione al MAC di Santiago del Cile fino al 7 settembre 2025, il progetto innesca una riflessione sul ruolo dell’arte, oggi, come simbolo di resistenza e di difesa della democrazia e dei diritti umani.

Eugenio Tibaldi, Chimere, 2025, dettagli dell’installazione site-specific, Courtesy dell’artista, foto Nicolás Retamal

La Biennale del 1974, laboratorio sociale contro la dittatura

Quella del ’74 fu la prima edizione della Biennale ad acquistare una funzione apertamente politica e l’arte riverstì un ruolo centrale nella narrazione di denuncia. Il ciclo di eventi multidisciplinari legato alla Biennale, Libertà al Cile: per una cultura democratica e antifascista, assunse la forma di una grande protesta culturale contro la dittatura di Pinochet, coinvolgendo arti visive ma anche cinema, musica e teatro. Più di cento manifesti cileni e fotografie furono esposti nel Padiglione Italia ai Giardini e la Brigada Salvador Allende, coordinata dall’artista spagnolo Eduardo Arroyo, realizzò dei Murales in Campo San Polo, Campo Santa Margherita e all’Arsenale, con il contributo di artisti italiani e stranieri come Emilio Vedova e Roberto Matta.

Venezia fu invasa nella sua totalità da quella che rappresentò, probabilmente, la più vibrante protesta culturale nei confronti della dittatura di Pinochet. In assenza delle consuete partecipazioni nazionali, la Biennale si fece laboratorio sociale aperto, sperimentale, collettivo; un modello di attivazione culturale che ancora oggi continua a interrogarci sul ruolo dell’arte in contesti di ridotta espressione democratica e sull’approccio politico e sociale dell’arte.

«Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento»: a Venezia, queste ultime parole che il presidente Allende trasmise alla radio la mattina dell’11 settembre del ’73 –  barricato dentro la Moneda, con l’elmetto in testa e il mitra che gli aveva regalato Fidel Castro in mano – riecheggiarono attraverso le immagini, le foto, le opere, le manifestazioni per le strade. L’arte si fece strumento di propulsione, megafono di denuncia.

I messaggi della Biennale del ’74 possono però essere riletti e reinterpretati anche nella società odierna, promuovendo il dibattito sulla creazione di una cultura effettivamente democratica e non limitandosi a mantenere viva la memoria delle atrocità commesse in un determinato luogo e momento storico ma fungendo da monito per il futuro. In questo solco di indagine si inserisce il progetto di Quimeras, dal momento in cui l’esposizione assume il compito di interrogare il presente attraverso il prisma del passato.

Tibaldi ed Hamilton: arte come archivio vivente e pratica di memoria

Tibaldi porta in mostra Chimere, un’installazione site specific che si serve di sette oggetti emblematici della vita quotidiana durante gli anni Settanta – un paio di stivali, una poltrona, una pentola a pressione, un televisore, una scrivania, un cappello panama e una radio – e li reinventa, privandoli della loro originale funzione. Da ciascun oggetto germinano sette piante, illuminate da lampade domestiche e associate a una particolare virtù: fede, speranza, carità, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Gli oggetti appaiono sospesi sopra uno specchio d’acqua, che ne riflette l’immagine e li proietta quasi in una dimensione onirica, con un velato riferimento alla città di Venezia. In un ulteriore riflesso, stavolta artistico, gli oggetti vengono riprodotti dagli acquerelli presenti nella prima sala, associati a canzoni registrate tra il 1973 e il 1974.

Eugenio Tibaldi, Chimere, 2025, dettagli dell’installazione site-specific, Courtesy dell’artista, foto Nicolás Retamal
Eugenio Tiblad, dalla serie Timeless, 2025, instalation view, details, Courtesy dell’artista, foto Nicolás Retamal

Su sinfonie diverse ma in un dialogo di complementarietà, appare lo sguardo di Patrick Hamilton, artista nato proprio nel 1974. Il suo lavoro si articola in tre momenti, legati ai tre elementi principali che meglio riassumono e raccontano la Biennale di Venezia del 1974.

Il murale La democrazia dipinta sui muri, omaggia i supporti utilizzati da brigadisti, artisti e attivisti, cileni e italiani, che operarono alla B74. L’opera rievoca i linguaggi visivi dei murales collettivisti, impiegando i colori del movimento operaio, il rosso e il nero, e forme diagonali che ricordano la Cordigliera delle Ande e la bandiera sindacalista. È un omaggio a una lotta che è ancora in corso, perché – come scrive Antonio Skármeta – «La poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa».

La democrazia dipinta sui muri, 2025. Smalto su muro, 5 pannelli in MDF di 230 x 120 cm. Misura totale dell’installazione, 4,60 x 15,60 metri. Cortesia di Patrick Hamilton. Crediti di Felipe Ugalde

La serie Libertà al Cile (ritratti) restituisce visibilità ai volti di coloro i quali resero possibile la Biennale del 1974, fisicamente come anche intellettualmente. Volti di uomini e donne che diedero il loro contributo a quell’atto di protesta, una sorta di iconografia del dissenso.

Libertà in Cile (Ritratti), 2025. 40 fotografie di 42 x 30 cm ciascuna. Misura totale dell’installazione 183 x 350 cm. Cortesia di Patrick Hamilton. Crediti di Felipe Ugalde

Infine, con Libertà al Cile (archivi), Hamilton costruisce un atlante poetico non lineare, assemblando insieme frammenti di documenti che evocano ferite invisibili. Il riferimento ai “frantumatori di ossa” poetici di Parra, Lihn e Jodorowsky è emblematico – non a caso, poetas en acción.

Libertà in Cile (Archivi), 2025. 5 pannelli in MDF, fotocopie, filtri di plastica, oggetti trovati, 122 x 152 cm ciascuno. Cortesia di Patrick Hamilton. Crediti di Felipe Ugalde

Il titolo della mostra, QuimerasChimere, appare dunque profondamente evocativo, nella misura in cui i linguaggi di due artisti dalla provenienza e dai linguaggi differenti si fondono generando una convergenza tra fotografia, pittura, archivio e installazione. Simbolo di resistenza immaginativa, la chimera sfida le categorie pure, proprio come intende fare questa esposizione, agendo come organismo complesso, fluido, disturbante. Dare alla mostra il titolo di Quimeras è un gesto poetico e politico insieme, vuol dire riconoscere la perdita e continuare – ciò nonostante – a coltivare una visione.

La democrazia dipinta sui muri, 2025. Smalto su muro, 5 pannelli in MDF di 230 x 120 cm. Misura totale dell’installazione, 4,60 x 15,60 metri. Cortesia di Patrick Hamilton. Crediti di Felipe Ugalde

Il presente come luogo di lotta

«Nel suo “Libro degli abbracci”, Eduardo racconta una storia che adoro. È per me una splendida metafora della scrittura in generale e della sua scrittura in particolare. C’era un uomo anziano e solitario che trascorreva la gran parte del suo tempo a letto. Si diceva che nascondesse in casa un tesoro. Un giorno entrano i ladri, cercano dappertutto e trovano un baule in cantina. Lo portano via e quando lo aprono lo trovano pieno di lettere. Erano lettere d’amore che il vecchio aveva ricevuto nell’arco di tutta la sua lunga esistenza. I ladri stavano per bruciare le lettere, ma, dopo averne discusso, decidono infine di restituirle. A una a una. Una per settimana. Da quel momento, tutti i lunedì a mezzogiorno, il vecchio avrebbe atteso l’arrivo del postino. Appena lo vedeva, gli correva incontro e il postino, che sapeva tutto, teneva la lettera alta in mano. E anche san Pietro udiva il battere di quel cuore, impazzito dalla gioia di ricevere il messaggio di una donna.

Non è questa la giocosa sostanza della letteratura? Un fatto trasformato dalla verità poetica. Gli scrittori sono come quei ladri, prendono qualcosa che è reale, come le lettere, e con un trucco magico lo trasformano in qualcosa di assolutamente nuovo».

Con queste parole, la scrittrice cilena Isabel Allende parla di Eduardo Galeano nella prefazione di Le vene aperte dell’America Latina. Uno degli interrogativi sollevati da Quimeras è relativo al ruolo dell’arte nella società di oggi: «L’arte può ancora ergersi a simbolo di resistenza contro le dittature e in difesa della democrazia e dei diritti umani?». L’arte nella sua forma più autentica, al pari della letteratura, può reinventare la realtà, riscriverla e fungere da vera e propria arma.

Eugenio Tibaldi, Chimere, 2025, dettagli dell’installazione site-specific, Courtesy dell’artista, foto Nicolás Retamal

Nella nostra epoca – in cui tutto può ricevere una spinta propulsiva di diffusione potenzialmente vastissima, ma che allo stesso tempo è dominata da sfumature sofisticate di disinformazione, da forme censura e controllo, e da un sempre più sottilmente marcato autoritarismo – è particolarmente importante che un elemento di fruizione “terzo”, “altro” rispetto all’informazione in sé e per sé, si faccia megafono di denuncia sociale, cristallizzando una situazione e rendendola monito e memoria.

«La memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda», citando Octavio Paz. Quimeras sottolinea la forza propulsiva dell’arte, punta un faro sulla sua capacità di agire sul reale. Tibaldi e Hamilton scelgono di gridare, senza retorica ma con rigore, re-innescando un circolo di domande scomode ma che pongono il pubblico davanti a responsabilità etiche, ricordando che la democrazia è sempre una costruzione fragile e mai definitiva: «Pensava allora e pensa ancora che la democrazia non debba nutrirsi di amnesia e imputazioni. La democrazia ha bisogno e diritto di buona memoria e giustizia», scrive la Allende. La Biennale del 1974 non è solo un evento storico ma una lezione. E Quimeras ne raccoglie l’eredità e la rilancia, trasformando la memoria in azione e la nostalgia in progetto.

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