Gli artifici di Luzian e certi altri poteri: Angelo Vignali da Mucho Mas!

di - 24 Maggio 2022

Al primo piede in galleria lo sguardo è dritto verso alcuni abiti appesi. Sono piuttosto evidenti, che subito saltano all’occhio. E ci sarebbe anche da aspettarselo in effetti: quella loro immobilità è in realtà il sospetto che da un momento all’altro potrebbero penzolare, girare, all’improvviso animarsi in qualche modo. Inoltre, quel loro numero, un gruppo da sei o sette abiti scuri, fa come una adunata. «Si muoveranno a un tratto e si metteranno tutti uno accanto all’altro, militarmente in fila, per essere indossati di nuovo», immagino. Convergendo al centro della galleria, a guardare più da vicino, quegli abiti sono giacche e cappotti. Sono in buono stato e la taglia sembra essere quella di un uomo di media statura. Ora che ci passo sotto, mi appaiono più come “scacciaspiriti”. Tuttavia, perché fatti di stoffa, sono incapaci di fare rumore, avvisare della venuta di qualcuno, persino di scacciarlo. Banalmente mi ricordo di Gogol e di quel cappotto che ragionava, e ostinato, se ne andava in giro per la città.

Photo Cortesy Mucho Mas! Artist-run. © Mucho Mas!/Luca Vianello e Silvia Mangosio

Nell’intorno quanto si vede è – chissà?! – ciò che resta di uno spettacolo. Nella galleria c’è qualcosa di scenografico, indubbiamente. Poi, dopo aver visto tutte quelle mani in giro è facile immaginare che lo spazio sia in realtà lo studio di un prestigiatore, di uno scultore o solo di uno “stravagante”. Si trovano ancora degli altri oggetti, tra questi c’è appesa al muro una fotografia che guarda in basso verso un pavimento. Pare mostrare qualcosa che è appena esploso o qualcosa che è apparso nel frattempo che svanisce.

Poco distante dalla stessa fotografia, ma a terra, c’è un quadro voltato.

Photo Cortesy Mucho Mas! Artist-run. © Mucho Mas!/Luca Vianello e Silvia Mangosio

Messi a tacere i primi frulli in testa proseguo con il resto della galleria. Scrivevo sopra che ci sono alcune mani sparse in giro, e insieme, anche fotografie di mani, ma poste su un tavolo. Dentro e fuori la fotografia le mani sono in cera e in gesso. Sembrano tentativi mal riusciti di fare mani. Nessuna di queste è una copia, dunque, non ce n’è una identica all’altra. Ci sono anche dita. Quarto, quinto dito, mezzo dito. Mani ‘vere’ e mani ‘finte’. Persino mani a sei dita!

Poi, appesa a un’altra parete c’è una fotografia di un bambino e di un adulto che stanno vicini, come in un ritratto di famiglia. «Vedo forse la faccia di quello “stravagante” – o di quegli stravaganti perché no – autori di tutto questo?!», ancora mi domando. Uno di loro indossa pure braccia imbottite da super uomo.

Sembra che ci siano tante cose lì dentro eppure le pareti sono pressoché spoglie e lo spazio quasi vuoto.

Photo Cortesy Mucho Mas! Artist-run. © Mucho Mas!/Luca Vianello e Silvia Mangosio

Ho trovato una curiosa coincidenza – sto per fare una piccola cronaca – appena uscita dagli spazi della galleria. Una lunga passeggiata mi riporta al centro di Torino, e sulla piazza di San Giovanni Battista decido di entrare nell’omonima cattedrale. Oltre l’ingresso, appesa su uno dei pilastri della chiesa, c’è una tavola nera. A essa sono attaccati dei calchi bianchi di alcune mani. Un dépliant spiega che questi gessi ritraggono le mani dei commensali dell’ultima cena. In cattedrale c’è quella del pittore Luigi Cagna del 1836. Queste mani, isolate dal loro resto, assumono un carattere descrittivo, indicano a chi appartengono, e più che essere mani e basta, diventano forme di intensione, i gesti dei personaggi in quella grande azione che è “l’ultima cena”. «Perché farlo?», ho pensato. Per informare chi guarda di qualcosa, per far capire “di più”, aggiungere uno strumento della narrazione della scena, forse. Ma cosa si dovrebbe capire? Cosa capire di un quadro, di una fotografia, di una scultura, ecc.?», ho pensato ancora (e continuo a pensare, ogni tanto, quando vi sto davanti o realizzo alcuni di questi).

Photo Cortesy Mucho Mas! Artist-run. © Mucho Mas!/Luca Vianello e Silvia Mangosio

Come alzare una mano non è una domanda, ma un’affermazione. Come si alza o si può alzare una mano, l’autore delle mani – così “maniate”, cioè fedeli, uguali alle sue, ma come quelle di tutti, di qualcuno o di qualcun altro – lo fa vedere in un libro, che col mezzo della sequenza, del numero, fa un corpo di immagini, un po’ come quel corpo di abiti di sopra. Nelle fotografie la mano, quella intera, sta in piedi su stessa, poggia sul tronco di un polso che non si vede. Lui, l’autore, ci gira intorno fotografandola con la sua macchina fotografica. Oppure no, lui è fermo e fa avanti e indietro tra la macchina e la mano, per girarla e scattare, rigirarla e scattare. Ma poco importa. Come si alza dunque una mano? Bisogna fare la mano prima di tutto, che vorrebbe dire dare ascolto a un volere, a quel punto poi si può provare ad alzarla. In fondo, non diversamente da quando si vuole dire qualcosa che non si sa come dire. Provando insomma, dicendola a proprio modo.

Photo Cortesy Mucho Mas! Artist-run. © Mucho Mas!/Luca Vianello e Silvia Mangosio

C’è una fotografia che, più di altre, si distingue. Come spesso succede in un numero di cose, in una quantità: se ne trova sempre qualcheduna che diventa un ricordo e non si perde, che si fa un po’ la parte per il tutto. Per me è la mano a sei dita. Sulla stregua di mani “fantastiche”, mi viene in mente che quelle mani in galleria si sarebbero mosse all’improvviso, vagando all’interno di un teatrino, in uno spettacolo dal titolo “How to raise a hand – i poteri di Luzian”. È una mano “autrice” in qualche modo, è l’azione di un potere non sempre conosciuto: l’intenzione.

In mezzo al libro “How To Raise a Hand” ci sono anche delle altre immagini, del tutto diverse dal resto, ma simili alla copertina. Non mani questa volta, ma dita e basta. Di quanto l’autore ha trovato in mezzo alle cose di suo padre, Luciano Vignali, c’è una busta contenente esclusivamente immagini di dita. Molte di queste dita sembrano entrare o uscire da piccoli buchi. Mi ricordano il wormhole, il verme del buco o il buco del verme, letteralmente. È quella teoria astrofisica per cui la materia viaggia passando da un buco nero a un altro dello Spazio. Il buco nero insomma è una porta di ingresso e sortita allo stesso tempo. Mentre la materia diventa altra materia durante la corsa.

Photo Cortesy Mucho Mas! Artist-run. © Mucho Mas!/Luca Vianello e Silvia Mangosio

Per tornare alle immagini delle dita, esse sono, più precisamente, ritagli di dita messi in un foglio insieme ad alcuni numeri. Non si conosce a quale ordine o classificazione facciano capo. Non indicano alcunché, né tanto meno indicizzano, sono un po’ la vista delle dita di tutti, delle mani del mondo che fanno delle cose, lo spazio bianco in cui sono disposte è lo spazio della possibilità, da cui muoversi.

Come detto poco sopra, nella mostra omonima del libro “How to raise a hand” c’è un quadro posto a terra, che è stato voltato. Non se ne vede dunque il fronte, ma il retro. Sorge spontaneo pensare se sia o meno un gesto dell’autore sulla propria morte, perché l’opera emerga senza di lui, o se è invece hanno (chi?) solo voluto celarlo. Anche questo pensiero resta in quello spazio delle volontà o delle possibilità. O, ancora, è la mano a sei dita che fa da sé.

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