09/07/2025 Spoleto. Fondazione Carla Fendi e Mahler & LeWitt Studios con Spoleto Festival dei Due Mondi. Teatro Caio Melisso Carla Fendi. Lecture/performance di William Kentridge con Neo Muyanga e Andrea Fabi.
In una serata estiva spoletina e nel pieno del Festival dei Due Mondi alla sua 68esima edizione, il Teatro Caio Melisso ha ospitato William Kentridge con la sua lecture performance Finding the Less Good Idea. Un progetto di Fondazione Carla Fendi e Mahler & LeWitt Studios, in collaborazione con il festival, che ha visto Kentridge protagonista anche come autore del manifesto ufficiale e con lo spettacolo The Great Yes, The Great No.
L’artista sudafricano ha portato in scena il racconto della filosofia che ispira la sua pratica artistica e il lavoro del Centre for the Less Good Idea, dove assecondare il dubbio diventa forma di resistenza silenziosa contro ogni dogmatismo. Kentridge si è affidato alle parole, tradotte e interpretate sul palco dall’attore Andrea Fabi, con la partecipazione di Bronwyn Lace e Neo Muyanga al pianoforte, entrambi al fianco dell’artista nella direzione del Centro a Johannesburg.
Come accade nel Centre for the Less Good Idea, l’incertezza si fa largo laddove l’idea iniziale comincia a vacillare e lascia spazio all’errore che apre le porte a una serie di nuove soluzioni inaspettate, curiose, non convenzionali. In Finding the Less Good Idea il pensiero divergente ha la meglio sulla mera logica. Attraverso il suono della parola e del pianoforte la creatività assume nuove forme inaspettate, scalzando la conformità, il rigore e tutto ciò che ci aspetteremmo di scontato.
Perché rivendicare l’imperfezione? Sostenere l’importanza dell’idea meno buona nel periodo storico in cui viviamo è una presa di posizione, una tendenza controcorrente rispetto a molte narrazioni dominanti, anche nel mondo dell’arte. Per quanto sia diventato di moda promuovere il “diverso”, in realtà facciamo ancora fatica ad allontanarci dalla ricerca dell’“idea buona”. Abbiamo raggiunto William Kentridge, e Bronwyn Lace, a Spoleto e gli abbiamo chiesto cos’è l’idea meno buona e perché è importante seguirla.
«L’idea meno valida diventa sempre più importante in un’epoca caratterizzata da maggiore certezza e maggiore dogmatismo. Sappiamo che quando le persone diventano più sicure delle proprie idee, devono rafforzarle con sempre maggiore autorità e violenza. E così, rivendicare un’idea meno buona, trovare idee che provengono dalla periferia, dai margini, che mettono in discussione la forza e la certezza dell’idea iniziale, tutto questo diventa anche una sorta di resistenza silenziosa alla nuova forma del mondo in cui viviamo. L’idea meno buona deriva da un proverbio africano che dice: “Se il buon medico non riesce a curarti, trova il medico meno buono”. Significa che quando le grandi idee di salvare il mondo o cambiarlo si rivelano false, come è successo a tante nel secolo scorso, allora bisogna cercare soluzioni locali, più particolari, meno certe e provvisorie.»
Bronwyn Lace ha spiegato: «Beh, molto spesso, quando le persone sentono per la prima volta un termine come “Less Good Idea”, pensano che si tratti di idee sbagliate e fallimenti. E mentre il fallimento ne fa parte, così come l’accettazione delle idee sbagliate, la Less Good Idea riguarda in realtà le idee che nascono nel contesto e in risposta al momento in cui la prima idea inizia a sgretolarsi. Quindi, sono le idee che arrivano dalla periferia per risolvere i problemi della prima idea. Comprendere che ciò che accade nella mente non può mai essere realmente conosciuto fino a quando non incontra il mondo reale. Quindi, l’idea meno buona riguarda l’accettazione e l’abbraccio del processo. E capire davvero che, se diamo ai nostri impulsi, all’inizio, il beneficio del dubbio, e poi ci prendiamo il tempo per affrontare le cose difficili e complicate quando quelle idee e quelle supposizioni iniziano a crollare, potremmo raggiungere cose che non sapevamo, finché non le abbiamo riconosciute come ciò che stiamo perseguendo. Quindi, è così che comprendiamo l’idea meno buona».
Il Centre for the Less Good Idea supporta il lavoro di artisti, in particolare del continente africano, offrendo loro uno spazio dove perseguire “l’idea meno buona”. Così, mentre molti artisti avanzando nella loro carriera tendono a consolidare la loro firma individualmente, William Kentridge dà spazio a nuove voci.
«Molti artisti ovviamente lavorano individualmente, si ha l’immagine dell’artista solitario nel suo studio, e questo fa parte della mia pratica. Ma gran parte della mia pratica ha anche a che fare con progetti che richiedono collaboratori, che si tratti di incisione e lavoro con maestri stampatori o con fonditori che lavorano con sculture, e in particolare con opere teatrali in cui c’è un intero team composto da designer, costumisti, illuminatori, attori e tutta una serie di persone. L’idea di avviare il centro era quella di mostrare ad altri artisti e attori il piacere e l’energia che derivano da un tipo di collaborazione che non si ottiene se si lavora da soli. E questo è servito sia a mostrare agli altri come funzionava, sia a riunire intorno a me un team allargato di possibili collaboratori da diversi ambiti, musicisti, cantanti. Ha funzionato molto bene», ci ha spiegato Kentridge.
Laboratorio di processi creativi condivisi, il Centre for the Less Good Idea è nato nel 2016 a Johannesburg dall’incontro tra l’artista sudafricano e Bronwyn Lace che ce lo ha raccontato nella sua visione. «Quando William e io abbiamo creato il Centre for the Less Good Idea nel 2016, proprio all’inizio delle nostre conversazioni, lui mi ha detto qualcosa che mi ha dato una sorta di fiducia in ciò che stavamo per fare, ovvero che voleva creare uno spazio che offrisse ad altri artisti le opportunità di cui lui stesso aveva goduto nella sua carriera. E quelle opportunità non riguardavano la portata del progetto o il prestigio, ma piuttosto la possibilità di trovarsi in uno spazio sicuro in cui poter essere stupidi. In uno spazio di vera sperimentazione e prova. In uno spazio collettivo e collaborativo in cui poter provare idee, dare loro il beneficio del dubbio, lasciare riposare ciò che non funziona e costruire su ciò che sembra avere slancio. William ha riconosciuto che questo è stato il suo bene più prezioso nella sua carriera e che, in realtà, in molte circostanze, gli artisti, indipendentemente dalla disciplina che rappresentano, spesso non hanno questa opportunità. Spesso sono guidati da una sorta di agenda capitalista di profitti e perdite, perché gli spazi che li ospitano hanno bisogno di guadagnare denaro da ciò che fanno. Quindi, è molto difficile correre dei rischi in quell’ambiente. Oppure sono spinti da una sorta di progetto sociale, in cui l’organizzazione che li sostiene li considera artisti che devono dimostrare di essere in grado di risolvere questioni sociali, politiche ed economiche per la società. E così, quando William ha fondato il centro e quando abbiamo lavorato alla creazione di questo spazio, sapevamo che lavorare insieme sarebbe stato importante, che non si sarebbe trattato di un singolo individuo, ma di molte persone che trovavano la loro voce all’interno di un collettivo».
L’approccio collaborativo è alla base della mostra Unhappen Unhappen Unhappen – Pepper’s Ghost Diorama ospitata nell’ex Battistero della Manna d’Oro di Spoleto. Parte di un programma più ampio curato da Guy Robertson, Curatore e Co-Direttore, Mahler & LeWitt Studios e Bronwyn Lace e prodotto dalla Fondazione Carla Fendi, con residenze, workshops ed eventi, l’esposizione ha presentato in anteprima quattro diorami animati realizzati da Anathi Conjwa, William Kentridge, Micca Manganye e Sabine Theunissen, e il video del making of Moments of making di Noah Cohen. Unhappen Unhappen Unhappen: il mantra di questa parola inventata, “non-succedere”, vorrebbe cancellare un trauma passato, il suo non esistere attesta però la sua non-possibilità.
Il trauma in questione è quello dell’apartheid e della colonizzazione, temi centrali nella pratica artistica di Kentridge. L’apartheid, il sistema di segregazione razziale che ha diviso il Sudafrica dal 1948 al 1994, e l’eredità coloniale europea rappresentano le ferite storiche rielaborate in questo lavoro.
Così, nella cornice dell’ex battistero cinquecentesco e attraverso la tecnica teatrale del Pepper’s Ghost, che crea l’illusione di figure spettrali attraverso specchi semiriflettenti in cui è possibile vedere sia i riflessi sia ciò che c’è dietro, gli artisti hanno presentato in mostra un tentativo di riconciliazione con un passato critico, mettendo in dialogo l’architettura rinascimentale e il linguaggio contemporaneo della multimedialità.
William Kentridge ci ha raccontato come sono nati i diorami per Unhappen Unhappen Unhappen – Pepper’s Ghost Diorama: «I diorami esposti dal Centre of the Less Good Idea sono stati la risposta che abbiamo cercato di trovare alla domanda: come mostrare la natura di alcune performance senza ricorrere alle solite fotografie o ai video, che sarebbero i mezzi più comuni? Ma restituendo il coinvolgimento della tridimensionalità, come lo si ottiene in una performance. Quindi sono nati dal lavoro che abbiamo fatto su Pepper’s Ghosts su larga scala, questa tecnica teatrale del XIX secolo che utilizza specchi semiriflettenti in cui è possibile vedere sia i riflessi sia ciò che c’è dietro, e lo abbiamo fatto su scala ridotta. Quindi siamo all’inizio dell’esplorazione di questo mezzo e di questa forma, ma sono sicuro che ci saranno altri diorami dal Centro e dal mio studio nel prossimo futuro. C’è stato un periodo in cui abbiamo esaminato i progetti realizzati dal Centro per vedere quali fossero adatti a essere inseriti in una di queste scatole. Stiamo gradualmente imparando cosa funziona meglio e cosa meno bene in questa forma. È una forma nuova per noi, ma penso che sia molto interessante».
A Bronwyn Lace abbiamo chiesto se ci fosse qualche aneddoto particolare relativo al processo di creazione dei diorami che avrebbe voluto raccontarci per darci un’idea di com’è stato lavorare insieme su questo progetto. L’artista ci ha raccontato di come il processo di ricerca sui diorami sia stato complesso e sia durato anni, nonostante Kentridge abbia già sperimentato in passato con scatole magiche, miniature, modellini. Nel 2018 al Centre for the Less Good Idea hanno iniziato a lavorare sul Pepper’s Ghost come modalità performativa, come mezzo.
Le performance “distillate in miniatura” sono diventate l’elemento perfetto per i diorami, con il contributo di artisti visivi e registi, editori e compositori di media digitali, falegnami, lighting designer, tutti lavorando insieme in un continuo scambio di idee. «E ci sono stati momenti in cui abbiamo iniziato a sentire che, dato che questi diorami dovevano attraversare il mare, dovevamo in qualche modo mandarli per la loro strada, in modo positivo. Perché ogni volta che lavoriamo all’interno del Pepper’s Ghost, lo chiamiamo un mezzo, e lo facciamo in modo molto deliberato. È un mezzo artistico.
D’altra parte, però, siamo consapevoli che il fantasma all’interno del Pepper’s Ghost e di molte di queste opere è anche una sorta di canale, un regno diverso. Spesso, lavorando in particolare con materiale d’archivio nel Pepper’s Ghost, avvertiamo una strana presenza che è allo stesso tempo presente e assente. E questo è, ovviamente, ciò che l’illusione del Pepper’s Ghost fa per noi, mentre lo guardiamo e ci giochiamo. E così, come è tipico in una tradizione sudafricana diffusa in molte culture, abbiamo bruciato della salvia mentre le scatole venivano messe nelle casse a Johannesburg. E abbiamo recitato una piccola preghiera agli antenati, affinché garantissero a queste scatole un viaggio sicuro attraverso i mari. E noi, mentre il viaggio era accidentato, in alcuni casi, infatti, è stata una vera impresa far arrivare questi complessi pezzi di tecnologia, oltre alla falegnameria con vetro, specchi e carta, attraverso l’oceano, fino al piccolo battistero di Spoleto. Questo è forse un piccolo aneddoto per darvi un’idea di come sia collettivamente che in diversi ambiti i diorami siano oggetti molto attivi per noi al centro».
William Kentridge e il Centre for the Less Good Idea sono arrivati a Spoleto grazie alla Fondazione Carla Fendi, condotta da Maria Teresa Venturini Fendi, che all’artista sudafricano ha attribuito anche il Premio STEAM 2025, per l’impegno creativo e il lavoro in ambito sociale. Un riconoscimento che ha reso possibile portare in Italia, per la prima volta, questa esperienza artistica unica, creando un ponte culturale tra l’Africa e l’Europa, nella ricchezza di un dialogo da approfondire anche con la mostra Pensieri fuggitivi a cura di Saverio Verini, ospitata a Palazzo Collicola, che offre un ulteriore approfondimento sul percorso artistico del maestro sudafricano. La Presidente della Fondazione Carla Fendi, Maria Teresa Venturini Fendi, ci ha raccontato cosa l’ha spinta a sostenere questa filosofia dell’imperfezione.
Cosa l’ha colpita dell’approccio del Centre For the Less Good Idea quando ha deciso di portare questo progetto a Spoleto? In che modo il concetto di “less good idea” si allinea con i valori della Fondazione Carla Fendi?
«Mi ha colpito molto fin da subito il particolare spirito collaborativo del gruppo e la fiducia che ognuno è invitato ad avere nell’altro, senza remore per possibili errori propri o altrui. Quando Kentridge ha chiamato Bronwyn Lace per mettere insieme questo hub creativo nel 2016 era già un artista molto affermato, ma come lui stesso ama raccontare sentiva la mancanza di “uno spazio fisico per la stupidità”, una frase che conoscendolo ho poi compreso bene: un ambito dove essere liberi di sbagliare, di arrivare ad una soluzione inaspettata, di interagire prendendo e donando agli altri. Una via per ribaltare o trasformare un’idea anche quando è apparentemente non in linea con le proprie aspettative o quelle altrui».
Lei parla di “sinergia collettiva” riferendosi al lavoro del Centro. Affrontando temi difficili come il trauma dell’apartheid e del colonialismo, in che modo questo tipo di progetti possono contribuire a un dialogo culturale più ampio? Qual è il ruolo che la Fondazione vuole giocare in questo processo?
«Kentridge viene da un ambiente progressista in un paese a lungo martoriato da profonde disuguaglianze e ingiustizie, ma i suoi legami con l’Europa lo hanno reso consapevole anche di altri conflitti, quelli che l’Occidente ha alimentato al suo stesso interno. La risposta del Centro a questo mondo “frammentato”, come lui lo definisce, credo sia da trovare nella multidisciplinarietà e nelle contaminazioni di culture, usate come “armi” di un linguaggio globale che supera i nazionalismi per ambire ad una comunicazione universale. Non sono solo sudafricani gli artisti coinvolti: molti provengono da altri paesi dell’Africa, dell’Europa e di altri continenti.
Non dimentichiamo che anche il Festival di Spoleto fu creato per riconciliare attraverso la cultura un mondo che era stato dilaniato dalla seconda guerra mondiale».
Dare il Premio Carla Fendi STEAM 2025 a un artista come Kentridge che mette al centro la collaborazione e la creazione collettiva è un segnale per il futuro dell’arte contemporanea? Come le piacerebbe che fosse interpretato?
«Penso che qualsiasi espressione artistica sia un linguaggio globale che supera nazionalismi e che al contrario contribuisce a creare una comunicazione universale. Per questo credo molto al messaggio che Kentridge trasmette con la sua arte e con le iniziative del Centro nella fiducia appunto che siano un veicolo importante per superare qualsiasi barriera ideologica».
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